Qual è la funzione del pacifismo mentre la guerra irrompe nel nostro orizzonte? A questa domanda ha risposto indirettamente un pacifista – Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena. Motivando l’offerta di una scholarship ad una studentessa intrappolata a Gaza, Aya Ashour, Montanari ha scritto di una «atroce banalità»: noi e i gazawi «siamo vicinissimi. Geograficamente, ma ancor più esistenzialmente. Studi, lingua veicolare, social media, musica, immaginario sono gli stessi. Ma Aya rischia di essere uccisa, ogni giorno».

Potremmo dirci vicinissimi anche agli ostaggi di Hamas. E applicando la proprietà transitiva potremmo aggiungere che sono tra loro vicinissimi anche palestinesi e israeliani di buona volontà. Ma poiché in guerra l’umanità dell’Altro diventa invisibile, la quasi totalità dei giornali israeliani ignora le sofferenze inflitte ai palestinesi; e la totalità dei media arabi non spende una parola sull’agonia degli ostaggi. L’unica eccezione un quotidiano liberal, Haretz: ha raccontato con rispetto ed empatia le vite di 40 palestinesi innocenti, uccisi a Gaza dall’esercito israeliano.

Per quanto Haretz non sia un giornale pacifista, nell’occasione ha svolto la funzione civile che attiene al pacifismo: innescare una percezione solidale delle popolazioni minacciate dalla guerra e sfidarci a reagire di conseguenza (ovviamente Haretz si batte per il cessate-il-fuoco). Ma se vuole essere credibile il pacifismo non può procedere per slogan e per dogmi. Altrimenti rischia di imitare il vecchio pacifismo filo-sovietico. Che aveva i suoi seguaci, ma al di fuori della setta non risultava convincente.

Per scansare questo pericolo il pacifismo dovrebbe innanzitutto prendere atto che le guerre non sono tutte uguali. Alcune sono necessarie come lo fu in Italia la guerra di liberazione. Altre sono molto meno mortali e feroci delle “paci” che turbano, verità che risulta difficilmente accettabile quando le vittime di quelle “paci” ci appaiono diversi da noi. In quel caso spesso preferiamo considerare le violenze che patiscono come inevitabili, in quanto prodotte dalla “cultura” di quelle società.

Così può accadere di leggere su un quotidiano che i Taliban hanno regalato all’Afghanistan sei anni di “pace e ordine” purtroppo interrotti dall’invasione americana, e di scoprire che nessuno eccepisce (neppure le colleghe di quel giornalista, tutte femministe e quasi tutte assai intelligenti). Beninteso qui non si vuole tacere l’ottusità e la violenza dell’occupazione occidentale: ma per milioni di ragazze afghane pure quel disastro fu preferibile alla “pace” e all’ordine che i Taliban adesso hanno ripristinato. Con una certa soddisfazione, si direbbe, del pacifismo ex filo-sovietico, sempre entusiasta quando gli occidentali le prendono.

Come evitare che gli uni scambino le leggi dei Taliban come espressione della “cultura” afghana, da rispettare, e gli altri percepiscano tutti i palestinesi come “non occidentali”, estranei ai nostri valori, e tuttora rifiutino di vedere le brutalità di cui sono vittime?. L’antidoto a questi “culturalismi” è la giustizia internazionale, un’idea molto liberale che ha due grandi meriti: dimostra l’esistenza di valori riconosciuti come fondativi da tutte le società e le “culture”, sia pure con modalità diverse; e smaschera, attraverso i codici ricavati, crimini di stati e di governi che gli autori cercano di travestire con termini tali da renderli accettabili, perfino nobili.

Da queste premesse è nato un “interventismo umanitario” a due facce; pretesto per lanciare una guerra neo-coloniale in Libia, ma anche tra i motivi per un intervento Nato in Bosnia che fermò il massacro dopo centomila morti. Anche quello un esempio di “imperialismo liberale”, oggi direbbero sia la la nuova destra occidentale sia il pacifismo per il quale è sempre sbagliato ricorrere a strumenti militari.

Questo convergere non giova all’antifascismo, ho sostenuto su questo giornale senza convincere il pacifista Maso Notarianni, che ha replicato. Gli consiglierei di domandarsi quali sarebbero state le conseguenze se nel 1995 gli americani avessero rinunciare ad intervenire, come suggerivano tanto i pacifisti quanto quei governi europei che attendevano serenamente il collasso della Bosnia. Come disse Mitterand a Clinton, consideravano “innaturale” la presenza di uno stato “diverso”, musulmano, in Europa.

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