La guerra è un dovere nazionale a cui nessuno dovrebbe sottrarsi, o un massacro che spinge le persone a uccidersi per ragioni che sfuggono al loro controllo? Due anni dopo Il signore delle formiche che rivisitava il processo per omosessualità dell'intellettuale Aldo Braibanti alla fine degli anni '60, Gianni Amelio torna in concorso a Venezia con Campo di battaglia per esplorare un capitolo doloroso della nostra storia: la Grande Guerra, che ha causato 16 milioni di vittime.

Fare un film pacifista come Campo di battaglia è un atto politico oggi?

Fare un film è soprattutto un atto politico, purtroppo la parola “pacifista” è consumata, il pacifismo non viene preso sul serio, è visto come qualcosa di lontano dalla realtà. Io invece sono battagliero e voglio combattere la battaglia delle idee che è l'unica guerra giusta, perché lottare con le idee implica democrazia, rispetto e giusta convivenza anche nel disaccordo.

Perché le è più facile parlare del presente attraverso la maschera del film in costume?

Perché il presente è più indecifrabile del passato. Certo questo implica un vero studio della storia, e oggi abbiamo troppe fonti e alcune francamente da dimenticare. Il mio film mi permette, con l’arma dell’allegoria, di parlare dell’oggi. Si parte sempre dal presente, altrimenti si rischia di tradire il messaggio che si vuole trasmettere allo spettatore. Il rischio è quello di cadere nel cinema di genere, che io amo molto ma i film di guerra, western, suspense o musical sono fondamentalmente intrattenimento. Guai ai film slogan anti-guerra, ma anche attenzione a non trasformare un conflitto che ha lacerato diverse nazioni in divertimento. La guerra del 15-18 è stata la mattanza più mostruosa di esseri umani che sia stata compiuta in nome del potere.

Perché ha deciso di spostare le trincee in un ospedale militare, che poi diventa un campo di battaglia intimo, personale?

Il campo di battaglia non finisce dove finisce la lotta armata tra cosiddetti nemici. L’ospedale è un'altra trincea dove bisogna rimettere a posto i “pezzi difettosi” per continuare ad alimentare la macchina guerra, fare in modo che se, per esempio, uno di loro si è guastato un braccio, con le cure riuscirà a premere di nuovo un grilletto. Volevo fare un film non di guerra, ma sulla guerra e quindi il campo di battaglia diventa l’ospedale dove si continua a combattere con un'altra coscienza.

Qui la battaglia è tra due amici intimi, due ufficiali medici con posizioni sulla guerra agli antipodi e un potere di vita o di morte sui loro pazienti...

Ho voluto che fossero due amici proprio per evitare lo schematismo amico/nemico. Malgrado il loro legame, sono divisi da scelte etiche diverse, sono due personalità inquiete che incarnano due atteggiamenti e punti di vista differenti: da una parte c'è il militare puro e obbediente alle regole a cui hanno insegnato che la guerra è un dovere, dall’altro c’è un ricercatore che non riesce ad accettare la carneficina umana della guerra. La guerra è un dovere se si è costretti a difendersi, però la domanda personale che continua ad attanagliarmi è come conciliare il concetto cristiano del porgi l’altra guancia con il difendersi da un’invasione? Albert Camus, che è uno dei miei scrittori preferiti e che ho studiato a fondo quando ho girato Il primo uomo, era un pacifista convinto, una posizione molto impopolare durante la guerra d’Algeria, con la sinistra che era dalla parte di Jean-Paul Sartre. L'umanità, prima di tutto. Cercare l’accordo, quando c'è disaccordo. Sanare un conflitto con le armi ci trascina in un sistema mafioso tra nazioni. Sono le mafie che dicono se tu spari a me io sparo a te. 

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Come si pone riguardo all'escalation di orrore in Medio Oriente e in Ucraina?

Con dolore e rabbia. Israele ha un capo sciagurato che agisce contro il proprio Paese, e Hamas non è certamente l'organizzazione che può salvare la Palestina, anzi. Quindi si tratta di due popoli che hanno nemici al potere perché la guerra è davvero il delitto più grande che l'umanità possa fare a se stessa. È giusto scappare da ogni guerra, ma ha visto come vengono accolti i profughi in Italia? Con diffidenza, razzismo, con un altro tipo di orrore che somiglia alla guerra, noi, popolo di migranti, siamo diventati come quelli contro i quali abbiamo combattuto…

Il film racconta anche l'arrivo dell'influenza spagnola che fece più vittime della guerra stessa. È peggio la guerra o la pandemia?

È assolutamente peggio la guerra che è il mezzo più nefasto di prevaricazione e purtroppo continua a fare vittime da millenni. Per le malattie anche pandemiche si sono trovati vaccini, oggi non si muore più di tubercolosi o di poliomielite da cui ero terrorizzato da bambino. Pensi che colpì anche il figlio di Anna Magnani, l'attrice più importante d'Europa e io invece, figlio di poveri disgraziati, mi sono salvato.

Che cosa abbiamo imparato, secondo lei, dalla pandemia?

Abbiamo imparato che l’uomo continua a non essere immune all’ottusità: Il Covid ha portato effetti collaterali come i No vax, i terrapiattisti o altri gruppi desiderosi di esserci a tutti i costi attraverso lo scontro… Invece di evolverci e trovare una salvezza, c’è un’umanità che cerca lo scontro.

È cambiato molto come regista negli ultimi anni ?

Sono migliorato, nel senso che sono partito da una passione che mi ha salvato, senza cadere nella superficialità a cui ti può portare questo mestiere. Non ho fatto il regista per diventare una persona importante che frequenta solo i suoi simili, e non sono per niente ricco perché, scusi la retorica, la ricchezza più grande è la libertà e io mi sento una persona molto libera, di fare le mie scelte senza cedere ai compromessi. Per esempio, quando mi hanno candidato all’Oscar per Le chiavi di casa non ci sono andato.

Perché no? L’Oscar è un compromesso e il Leone d'oro a Venezia per Così ridevano o il Gran Premio della giuria di Cannes per Il ladro di bambini a Cannes no?

Perché l’Oscar ti cambia, ti porta a fare film da Oscar, che ambiscono a essere visti da mezzo mondo. Dover piacere a tutti abbassa per forza il livello di libertà creativa, di scrittura, di scelta di cosa raccontare.

Qual è il film in cui ha sentito di più di aver fatto compromessi?

Quello in cui ho subito più condizionamenti è stato I ragazzi di via Panisperna che racconta il rapporto tra Majorana e Fermi, ispirato al saggio La scomparsa di Majorana di Sciascia. Era una storia a cui tenevo molto ma all'inizio non era chiaro se sarebbe stato un film o una miniserie televisiva. Cosa piuttosto complicata perché i tempi di narrazione tra una serie e un film sono molto diversi.

Ha mai pensato di girare una serie televisiva?

Magari! Purtroppo fino ad ora mi hanno offerto cose che non sapevo fare, e quando c'è una cosa che non so fare, lo dico: progetti che non sento miei, materiale che non so trattare, argomenti che non mi interessano. E in fondo se scorre la mia filmografia i miei temi sono sempre gli stessi: la paternità, la fraternità, l’amore in tutte le sue forme e la migrazione. In Così ridevano che considero il mio film migliore, racconto l’emigrazione nel nord, a Torino, e la nascita della mafia. La mafia nasce dal familismo, dal fatto che, per amore di un fratello, per esempio, giustifico tutto anche le azioni più illegali.

L’attore Vincent Cassel mi ha detto in un’intervista che a un certo punto della sua vita si è reso conto che andare al cinema era come scegliere di non vivere, che cosa ne pensa?

Penso il contrario di Cassel, il cinema e i film che vedo fanno parte della mia vita. Vado continuamente in sala perché sento di comunicare con gli altri attraverso il cinema. È un mezzo che mi permette di scoprire culture lontanissime dalla mia, vedere un film coreano, di Taiwan o di un giovane regista sudamericano arricchisce la mia vita professionale e personale. Il cinema mi ha salvato e ha dato un senso alla mia esistenza. Non ho mai fatto differenza tra mia vita professionale e privata e amo condividere la mia passione andando in sala con mio figlio, le mie nipoti e le persone che amo.

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