- A prima vista chi predica la pace sembra un illuso ma è vero il contrario
- La guerra è un ingranaggio che non risolve ma rende le crisi endemiche e permanenti
- Per essere realisti davvero occorre superare le proprie ragioni (anche se costa) e guardare al futuro
«Smettiamola di fingere di non capire. La Russia ha attaccato l’Ucraina senza motivo, uccide civili in massa e “ripulisce” il territorio, commette crimini contro l'umanità. Non c’è modo di negoziare. La guerra deve essere vinta». È quanto scrive su twitter il consigliere presidenziale ucraino Mikhail Podolyak.
Dichiarazioni dirette che sembrano realistiche: l’unico modo per fermare l’aggressione è respingere i russi dietro i confini del 1991. Chi invoca dialogo, negoziato o pace al contrario pare attestarsi su posizioni irrealistiche, ingenue o utopistiche.
Ma si può anche rovesciare il ragionamento: più realistico provare da subito a fermare la guerra prima che degeneri o che ribalti il suo indirizzo, mentre chi vuole continuarla “fino alla vittoria” mirerebbe ad un progetto illusorio e irrealizzabile o addirittura pericoloso se si considera che nella storia il tempo ha sempre giocato a favore di Mosca (per ora tutte le previsioni sugli effetti delle sanzioni o sulla carenza degli armamenti non trovano conferma).
A chi dare ragione? A chi crede che l’unico modo sia battere il nemico o a chi trova più prudente accordarsi? Non è questione di resa – come ama dire la polemica mediatica – ma di realtà dei fatti: quale delle due posizioni garantisce meglio un risultato, il più possibile “giusto”?
La “guerra giusta” non esiste perché ogni conflitto porta con sé numerosissime ingiustizie che restano marcate nel tempo e segnano il futuro di chi ha combattuto e di chi ha subito. Il tema è come si giunge ad una pace giusta.
Un conflitto non avviene senza effetti profondi che vanno ben al di là dei torti e delle ragioni. Prova ne sia il fatto che la Russia continua ad inviare soldati al fronte con l’appoggio popolare. In larga maggioranza i russi sono convinti di sostenere una “guerra giusta”, come descritta dalla propaganda.
Guerra senza limiti
I fatti di Soledar sono lampanti: la guerra può eternizzarsi con un continuo rovesciarsi di fronte (e di fortuna delle armi), senza limiti. La guerra russa mediante un rullo compressore umano che tutto schiaccia con enorme dispendio di vite, non è sostenibile a lungo termine per l’Ucraina: gli occidentali già parlano di 100.000 vittime ucraine, morti o fuori combattimento.
È uno strano conflitto questo, in cui non esistono quasi stime vere sulle perdite, mentre in tutti gli altri –anche i più dimenticati – ci si sforza di dare quante più cifre possibili. Come dicono gli esperti, i russi possono mandare a combattere ancora centinaia di migliaia di giovani reclute, mentre gli ucraini sono sempre gli stessi che combattono da quasi un anno senza respiro.
In tali condizioni quanto è realistica la narrativa della vittoria? La strategia russa è cambiata nel tempo: dall’errata previsione di una facile conquista si è passati ad una campagna che prevede l’impraticabilità dell’Ucraina: distruggere le condizioni per poterci vivere.
Certamente permangono degli interrogativi: perché ferrovie o dighe non vengono colpite? Forse i militari russi non hanno ancora deciso cosa fare (come dimostrerebbe il continuo cambio dei comandanti in capo) ma una cosa è certa: si punta a svuotare l’Ucraina.
Gli altri casi
È una strategia autoritaria che vediamo applicata in Siria e altrove: rendere invivibile buona parte del paese-vittima, provocando la fuga della popolazione. Così come Damasco non vuole il rientro dei circa 6 milioni di cittadini scappati (considerati traditori), allo stesso modo Mosca prende atto che la stragrande maggioranza degli ucraini le è ostile e cerca di spingerli fuori.
Tutto ciò assomiglia ai grandi spostamenti coatti di popolazione avvenuti dopo la seconda guerra mondiale, con la creazione di una nuova geografia etnica. Si tratta di un piano che potrebbe proseguire anche nel caso in cui la Russia si ritirasse dietro le sue frontiere del 1991: per metterlo in atto bastano i missili di cui Mosca dispone in numero esorbitante.
D’altro canto chi favorisce la guerra ad oltranza pensa che se non si stronca adesso ogni velleità russa di espansione, c’è il rischio di ripetere tale dramma all’infinito. Secondo costoro, una tregua di qualsiasi tipo (negoziata o no) porterebbe solo ad un rinvio.
Più realistico dunque combattere fino in fondo, ora che l’occidente è compatto, per provare a “finire il lavoro”.
Ci sono casi recenti, come in Iraq, in cui una guerra interrotta a metà (1990-91) ha significato doverla riprendere pochi anni dopo (2003). Ma appunto la lettura degli eventi potrebbe rovesciarsi: visti i pessimi risultati ottenuti, era meglio andare fino in fondo o non iniziare quella guerra per nulla? Alla luce dell’eruzione dell’Isis, e del contagio che ha travolto anche la Siria, cos’era davvero più realistico?
In realtà, comunque si giri la questione, appare evidente che la guerra non è mai la scelta più realistica, soprattutto se la si prosegue senza porsi limiti. Si tratta di uno strumento obsoleto e grossolano, incapace di risolvere, o quanto meno di un dispositivo ambiguo: da un lato non assicura il risultato nemmeno a chi ha ragione; dall’altro anche in caso di vittoria spesso si trasforma nel suo contrario o in un costo insostenibile.
È necessario un esame realistico e non ingannevole della guerra: non chi pensa alla pace è un illuso, ma chi crede che lo strumento militare risolva le controversie e porti ad una soluzione “giusta”. La storia dei conflitti recenti conduce inevitabilmente a tale constatazione.
Quando una guerra diventa quotidianità
Più un conflitto si allunga e più ci si abitua ad esso: diventa uno stato quasi naturale, anche se non lo è mai per chi lo subisce, soprattutto per i non combattenti, i civili, gli anziani, le donne e i bambini, i malati, i disabili, i poveri. L’opinione occidentale si sta abituando alla guerra in Ucraina, il che significa che inizia a considerare quel paese una terra di violenza endemica (una specie di no man’s land), come avviene per altre zone del mondo.
Tale assuefazione provoca conseguenze: se le opinioni pubbliche si abituano, presto si adattano anche l’economia, le visioni politiche, le relazioni globali oltre che la qualità della vita stessa. Si mette in moto un ingranaggio micidiale: pensare che sia possibile convivere a lungo con la guerra, cioè con un mondo diviso e al cospetto del nemico.
Questo trasforma tutta la costruzione internazionale – sia di pensiero che materiale – e mette un freno ad ogni visione collettiva globale, come quella sui beni comuni, sull’ambiente, sullo sviluppo, sull’uguaglianza o sulla giustizia. Fondamentalmente tale è l’obiettivo della guerra: rendersi indispensabile agli occhi degli uomini in modo che si convincano della sua ineluttabilità.
Arrendersi a tale presunta evidenza sembra realismo ma in realtà è una trappola del pensiero, un sonnambulismo della coscienza. Non è un credulone chi pensa alla pace ma chi crede che la guerra sia la soluzione.
Se la guerra si insedia come unica possibilità, va in fumo tutto ciò che gli esseri umani hanno pensato, elaborato e sperato dalla fine della guerra fredda ad oggi (e per alcuni anche prima, durante quel conflitto): ogni innovazione giuridica, politica, economica, valoriale, morale, ambientale e così via, finisce rottamata e si torna ai vecchi schemi dei rapporti di forza (politica di potenza).
All’inizio ciò può sembrare quasi una semplificazione del quadro: la tentazione del “vederci chiaro”, su chi è nemico e chi no. Ma presto tutto si appanna e si confonde di nuovo, in un’interminabile diatriba su cosa sia una pace giusta: teoricamente dovrebbe essere l’obiettivo di una “guerra giusta” portata avanti con “mezzi giusti” ma, com’è noto, nella realtà tutto è molto più complicato.
Soprattutto: in guerra nessun mezzo è giusto. La guerra non lascia mai chi combatte immune dall’utilizzo della violenza i cui effetti durano per generazioni. Noi europei dovremmo saperlo bene: le due guerre mondiali hanno lasciato ferite aperte di ogni tipo, che sanguinano ancora oggi.
Soltanto la decisione di pace, posta come legge suprema – addirittura sopra ogni diritto di rivendicazione o risarcimento –, può portare ad una sicurezza sostenibile nel tempo. Chiedendo l’amnistia per i comunardi, Victor Hugo scriveva: «Solo l’oblio perdona». Di fronte all’odio permanente, forse è la risposta più realistica che vi sia.
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