L’emendamento Costa spinge la democrazia nelle tenebre. E questa soccombe nell’oscurità, parafrasando il motto del Washington Post
L’emendamento Costa spinge la democrazia nelle tenebre. E questa soccombe nell’oscurità, parafrasando il motto del Washington Post. La norma approvata alla Camera prevede il divieto di pubblicazione sui giornali del contenuto delle ordinanze di custodia cautelare, cioè i mandati di arresto, disposti nell’ambito delle indagini preliminari. Atti il cui scopo è informare gli indagati sul motivo del provvedimento che li riguarda. Le informazioni contenute sono però utili anche per fornire un quadro accurato ai lettori, prima di tutto cittadini e dunque titolari del diritto a essere informati su questioni di interesse pubblico.
La “legge” Costa segue la riforma Cartabia sulla presunzione di innocenza. Frutto di ripetuti e maldestri tentativi di imbavagliare i cronisti protrattisi nel corso degli ultimi vent’anni. L’ultimo porta il nome di Enrico Costa, e non è un caso. Avvocato che siede tra i banchi dell’opposizione, dopo una vita passata tra Forza Italia, centristi e alfaniani, è approdato nel partito Azione di Carlo Calenda. Ed è riuscito nel suo obiettivo non negli anni in cui venerava Silvio Berlusconi, ma ora che milita tra coloro che un tempo scendevano in piazza per difendere la libertà di stampa dagli attacchi dei governi del Cavaliere.
Nel curriculum politico di Costa, l’impegno profuso nella crociata contro l’informazione è preminente. Una battaglia fatta in nome del garantismo, usato in modo ingannevole da un pezzo della classe dirigente del paese che da anni sfrutta un nobile principio con un obiettivo chiaro: proteggere chi gestisce e detiene il potere. Potremmo elencare centinaia di esempi in cui i garantisti à la carte non hanno proferito parola su abusi giudiziari subiti da persone normali, migranti e ultimi della società, mentre si impegnavano in difese rumorose per ministri o imprenditori spesso tutelati da nutriti team di principi del foro.
La verità di Cantone
Per capire la ricaduta dell’emendamento sul giornalismo, il governo dovrebbe fare tesoro dell’analisi di Raffaele Cantone, oggi procuratore capo di Perugia dopo una vita in prima linea contro clan dei Casalesi e malaffare. Cantone, intervistato dal Fatto Quotidiano, è netto nel dire che grazie a Costa tornerà di moda quello che viene definito “il baratto” delle carte giudiziarie: «Questa legge è un passo indietro rispetto ai meccanismi di trasparenza innestati con il rilascio di atti ai giornalisti da parte degli uffici giudiziari». Si riferisce, cioè, a quella buona pratica avviata da alcune procure di rilasciare dietro richiesta ufficiale alla segreteria del procuratore, pagando peraltro una marca da bollo, le ordinanze di custodia cautelare. Aveva iniziato Napoli, hanno seguito l’esempio Perugia, Salerno, Potenza.
Invece di rendere obbligatoria la procedura, seguendo Costa la maggioranza che supporta il governo ha preferito tornare al medioevo, in cui i giornalisti continueranno a procurarsi gli atti grazie a rapporti privilegiati con pm, polizia giudiziaria e avvocati. Rapporti, come sottolinea Cantone, che spesso si basano sulla riconoscenza: il cronista mai si azzarderebbe a criticare chi gli ha dato le carte, perché sa che presto potrebbe dover tornare a bussare alla medesima porta. A chi giova questa opacità?
Di certo gli sconfitti di questa guerra all’informazione sono soprattutto due: gli indagati più fragili che vedono nella stampa una delle poche voci utili a difendersi da accuse ingiuste; e i cittadini che avranno sempre meno informazioni sul potere locale e nazionale. Con meno trasparenza, anche la democrazia è più debole.
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