Il progetto di aggregare i sostenitori degli Stati uniti d’Europa è ambizioso. Ma rischia di essere solo un veicolo sul quale salire per superare la soglia di sbarramento
Emma Bonino gode di un certo credito personale e politico. Abile nello spenderlo e nell’avvantaggiarsene. Ci sta. Molti politici cercano di usarla e, va detto, un po’ lei ci si presta. Anche al presente, in vista delle elezioni europee, con l’iniziativa di una lista cosiddetta “di scopo” dalla denominazione alta e impegnativa “per gli Stati uniti d’Europa”.
Si è prontamente aggregato Renzi il cui partito Italia viva è accreditato di un consenso decisamente al di sotto della soglia minima del 4 per cento; aveva manifestato interesse Calenda con la sua Azione, ma poi non vi ha aderito con una motivazione che va al di là della nota incompatibilità con Renzi. «Non è una cosa seria», ha seccamente sentenziato. In questo caso, difficile dargli torto. “Lista di scopo” e di scopo elevatissimo è espressione che merita una chiosa. Quale il declamato scopo? Mica niente: gli Stati uniti d’Europa, meta nobilissima ma decisamente lontana. Al più un orizzonte ideale.
Nel tempo che ci separa da quel nobile ma remoto traguardo – questo il sottinteso – ciascuna delle sigle e dei candidati si riservano di aderire a famiglie politiche diverse. Gli elettori darebbero un mandato al buio a europarlamentari dei quali ignorano la futura collocazione nell’Europarlamento.
La lista, dunque, un mero veicolo senza vincolo politico di mandato. Se si escludono i partiti dichiaratamente sovranisti ed euroscettici, le altre famiglie politiche sono esattamente i riferimenti – molteplici e diversi – per interpretare quel traguardo federalista, per implementare i tempi e i modi atti a dare concreta attuazione a esso.
Chi giustamente sostiene che la Ue abbia bisogno di più politica e meno tecnocrazia dovrebbe conferire rilievo al protagonismo delle famiglie politiche europee, non trasmettere l’idea che non si diano significative differenze. Oltre alla tecnocrazia s’ha da evitare un altro limite: quello della vacua retorica europeista. Anche chi, in senso lato e francamente generico, propugna “più Europa”, può e anzi deve meglio articolare il fine, i mezzi, il percorso di un processo palesemente lungo e multilivello.
Non ci si può contentare di una parola d’ordine, in sostanza un facile slogan. Esemplifico: si tratta di meglio definire il rapporto tra Stati nazionali e istituzioni comunitarie, tra mercato e pubblici poteri, tra crescita economica e qualità sociale, tra politica estera e di difesa, nonché le politiche a sostegno della transizione digitale e della transizione verde.
C’è infine la polemica sui Cuffaro, i Cesaro e i Mastella sollevata da Pizzarotti, ex sindaco di Parma e ora presidente di Più Europa. Non è un mistero che Renzi abbia cercato con loro un raccordo. Anche al netto della facile ironia instillata dalla singolare liaison del “fu rottamatore” con un personale politico non esattamente declinato al futuro, merita interrogarsi sul loro tasso di apertura internazionalista, di europeismo e di cultura liberale.
In breve, è troppo scoperto l’indice di strumentalità dell’operazione: un veicolo per partiti e candidati che hanno un solo problema comune: la soglia del 4 per cento.
Dunque, una lista di scopo il cui scopo, mi si perdoni il bisticcio, fuor di ipocrisia, più che il traguardo ardito degli Stati uniti d’Europa, è appunto la vetta agognata dello scavalcamento dello scoglio del 4 per cento. Politicamente un po’ pochino.
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