La luna di miele con il governo sembra ormai finita. Senza una alternativa credibile, cresce il ricatto di un nuovo governo tecnico
Una manovra da coperta corta e per quasi due terzi in deficit, la bancarotta sui migranti, palla in tribuna sul salario minimo, porte chiuse sui finanziamenti alla sanità pubblica: a ridosso del primo anniversario il consuntivo del governo è sotto gli occhi. Se luna di miele c’è stata pare archiviata assieme al caldo anomalo di questo inizio autunno. Ora anche per loro è iniziata la stagione dove scaricare i fallimenti su quelli di prima non funziona. Ci proveranno comunque, almeno sino alle europee mescolando insulti a vittimismo, ricetta collaudata da ogni maggioranza in affanno.
La realtà, però, è diversa. L’Italia rischia una condizione simile a quella del novembre 2011 e per capirlo bastano un paio di numeri partendo proprio dalla legge di bilancio. A consuntivo sarà di 24 miliardi, quasi 16 in deficit, il che vuol dire nuovo debito da vendere. Il governo spiega che l’anno prossimo la crescita sarà dell’1,2 per cento, dato sovrastimato di mezzo punto rispetto alla media delle previsioni, e giura che sarà frutto di un aumento dei consumi. In verità nessuno può offrire certezze simili.
Non lo può fare la proroga per un solo anno al taglio del cuneo fiscale e tanto meno i sacrifici nell’erogazione di servizi essenziali.
L’incubo del debito
Resta il nodo rappresentato dal costo del debito. Tre anni fa pagavamo 57 miliardi di interessi, quest’anno saranno più di 80 e nel 2025 saliranno ancora di alcune decine di miliardi. In altre parole Palazzo Chigi sta imboccando un sentiero drammatico per la tenuta in riga di welfare, pensioni, stipendi.
Con queste proiezioni e senza modificare la pressione fiscale (anzi, con i 14 condoni cumulati e una soglia più bassa del contrasto all’evasione), nel 2026 potrebbe rendersi necessaria una riduzione della spesa pubblica nell’ordine di decine di miliardi. Il punto è che davanti a questi numeri la destra parla di una spending review di 2 miliardi e un piano di privatizzazioni per altri 22 senza spiegare in cosa dovrebbe consistere.
Ecco perché evocare l’ennesimo governo tecnico non credo sia solo un’arma di distrazione. Penso che quella provocazione (o suggestione per alcuni) nasca anche dal rischio che un debito giunto a sfiorare i tremila miliardi e che non è più protetto dagli acquisti della Bce e dalle deroghe al patto di stabilità possa finire letteralmente fuori controllo.
A quel punto la destra potrebbe trovarsi davvero nella necessità di compiere una macelleria sociale colpendo i soliti noti (lavoro dipendente, precari, pensionati), e salvando una volta di più gli interessi del loro core business (flat tax, condoni, rendite).
Per tutto questo se non vogliamo che il discorso sui governi tecnici trovi consenso anche tra quanti a parole negano qualunque spiraglio è giustissima la battaglia su salario minimo e sanità, ma la fotografia impone di dire una verità: senza una riforma fiscale profondamente redistributiva una via di uscita dal tunnel dove questo governo ha contribuito a portare il Paese semplicemente non esiste. Senza quella leva le stesse nostre richieste sul presidio di servizi essenziali e universalistici non avrebbero dove reperire le risorse necessarie.
Penso che su questo piano si possa accelerare la costruzione dell’alternativa e lo si debba fare con un’alleanza che oltre alle singole sigle, per altro condizionate dalla campagna delle europee, realizzi una saldatura tra il mondo dei lavori e l’impresa che innova e compete nella legalità. Su questa base spiegare nel Parlamento e nelle piazze perché tocca a noi dire “siamo pronti” a raccogliere la sfida del governo in un rapporto diretto col paese e fuori da qualunque scorciatoia tecnica.
Destra nostalgica
Infine, se questo è lo scenario trovo siano infantili le critiche che da alcune parti sento rivolgere alla segretaria del Pd. La realtà è che oggi c’è tutto l’interesse a rendere più forte un partito percepito come il baricentro dell’alternativa, ma questo non lo si fa architettando a tavolino nuove alleanze interne, riedizione di pratiche antiche e un po’ logore.
Oggi abbiamo bisogno di un partito all’altezza della sfida che la destra ha lanciato alle culture liberali, riformiste e della democrazia e che dopo l’esito positivo del voto in Polonia troverà nelle urne del giugno prossimo una verifica decisiva.
Dobbiamo farlo perché l’avversario è una destra nostalgica del tempo peggiore, cinica al punto da abbracciare in Germania gli eredi del nazismo. Se abbiamo chiaro questo, capiamo perché costruire quell’alternativa diventa il più solido presidio di civiltà, cultura e speranza per il dopo.
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