- Una specializzazione universitaria per i medici di medicina generale e il loro passaggio ad un rapporto di dipendenza dal servizio sanitario pubblico potrebbero rivoluzionare la medicina del territorio
- Un rapporto di dipendenza permetterebbe un controllo più stretto su orari, obiettivi e modalità di lavoro dei medici di famiglia, ma porrebbe importanti problemi economici e organizzativi
- Al momento il dibattito è tutto ideologico, con i sindacati della medicina generale contrari al progetto e il governo che non ha presentato alcuna stima su costi, tempi e modi di attuazione
Da quando il ministro Oreste Schillaci ha fatto conoscere le sue intenzioni sulla riforma della medicina generale, i giornali e i blog della professione si sono riempiti di pareri e di polemiche sui due punti nodali degli annunciati provvedimenti: la creazione di una specializzazione universitaria per i medici di famiglia e il loro passaggio alla diretta dipendenza del servizio sanitario pubblico.
Se a prima vista queste potrebbero sembrare scelte di scarsa rilevanza per i cittadini, in realtà si tratterebbe di interventi rivoluzionari, destinati ad avere importanti ricadute sulla vita e la salute di tutti. Vediamo perché.
Il valore della formazione universitaria
Avere una scuola universitaria al posto dell’attuale corso di diploma regionale, di fatto gestito dalle associazioni sindacali della medicina generale, garantirebbe ai cittadini una maggiore uniformità e, salvo rare eccezioni, una migliore qualità, nella formazione del proprio medico di famiglia.
L’insegnamento universitario esporrebbe inoltre i nuovi medici, fin dagli anni del proprio apprendistato, al confronto culturale e pratico con i colleghi delle altre specialità, anziché tenerli isolati, come ora, in un ambito fortemente corporativo. Questo sarebbe un elemento utile per abbattere la barriera tra medicina del territorio e medicina ospedaliera che è uno dei principali ostacoli a una presa in carico efficace ed efficiente dei bisogni di cura dei cittadini e del loro variare nel tempo.
Luci e ombre del rapporto di dipendenza
Il rapporto di dipendenza, che sostituirebbe quello attuale di convenzione con medici libero professionisti, costituisce un secondo potenziale passo avanti della medicina territoriale. In sintesi, la distribuzione dei medici sul territorio, gli obiettivi e la valutazione del loro lavoro, i tempi e i modi di apertura degli ambulatori, ricadrebbero sotto la responsabilità di un ente pubblico (il distretto sanitario) che dovrebbe agire nel massimo interesse dei cittadini, libero dalle odierne defatiganti trattative con i sindacati della medicina generale.
Ho detto “potenziale” passo avanti non a caso. Il passaggio dei medici ad un contratto di dipendenza richiederà infatti scelte e programmi di investimento da far tremare le vene e i polsi che necessiterebbero di una analisi di dati e di una previsione di spesa di cui al momento non si ha notizia.
Se è vero che già oggi i medici di medicina generale vengono pagati con soldi pubblici, non vi è traccia di una stima, seppure approssimativa, di quanto inciderebbero sul bilancio della sanità il riconoscimento di ferie pagate, sostituzioni per gravidanza e malattia, tredicesima, liquidazione e di tutti gli altri benefit legati al lavoro dipendente.
Sempre in termini di costi, bisognerà poi risolvere il problema della proprietà degli studi e dello stipendio del personale ausiliario, amministrativo e infermieristico che oggi ricadono quasi in toto sui medici. Tra le ipotesi ventilate c’è quella di centralizzare la gran parte dei medici nelle case della salute, con un sicuro risparmio di scala pagato però al caro prezzo di una minore contiguità tra il cittadino (pensiamo soprattutto agli anziani) e lo studio del suo medico curante e, forse, di una perdita di quella “relazione fiduciaria” tra medico e paziente che le associazioni di categoria sventolano come un vessillo.
Un modello da superare?
Il valore di un rapporto di cura fiduciario è in sé indiscutibile, ma è perlomeno lecito dubitare che questo termine illustri adeguatamente la realtà odierna. Diversi elementi lasciano infatti sospettare che si tratti più di una aspirazione che di una realtà.
La scelta del medico è infatti fortemente condizionata dalla (inevitabile) limitazione del numero massimale di assistiti per singolo medico; i tempi di una visita in ambulatorio sono sempre più stretti e rendono solo virtuale la possibilità di una discussione prolungata e rilassata con il proprio curante; un numero crescente di italiani “salta” abitualmente il proprio medico, considerandolo poco più di un distributore di ricette e prescrizioni, per accedere direttamente agli specialisti, naturalmente a pagamento.
Bisognerebbe dunque chiedersi spassionatamente se il modello tradizionale del medico di famiglia al quale siamo abituati non sia oramai definitivamente superato, o quantomeno non più realistico in una sanità pubblica altamente tecnologica, proiettata verso la telemedicina, efficientistica e sempre più in crisi di risorse umane ed economiche.
Tra il dire e il fare
Nonostante la rilevanza e la complessità del problema, al momento ci troviamo impantanati, come oramai d’abitudine in questo paese, in un dibattito solo ideologico. Da un lato ci sono le associazioni della medicina generale, genericamente disponibili a considerare la formazione universitaria ma, salvo periferiche eccezioni, corporativamente schierate contro qualsiasi ipotesi di lavoro dipendente.
Dall’altro troviamo un governo che, incurante dello sgretolarsi della sanità pubblica cui non sembra capace, né forse desideroso, di mettere mano, cavalca ipotesi che richiederebbero una forte scelta di campo e ulteriori significativi investimenti. Attendiamo con poca speranza progetti di dettaglio, analisi epidemiologiche ed economiche, programmi e tempi di attuazione.
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