La vicenda personale dello storico Alessandro Barbero ci permette di analizzare perché la memoria non è sufficiente e perché invece è solo la storia a darci gli strumenti per pensare a un’idea di giustizia
Lo storico Alessandro Barbero (ospite di Floris) ha raccontato di avere avuto due nonni fascisti, uno dei quali ucciso dai partigiani, ma di essere oggi pienamente antifascista, anche grazie allo studio della storia e più in generale all’adozione dell’atteggiamento intellettuale dello storico. Ha spiegato che affidarsi alla memoria non basta, perché ognuno ha la sua, di memoria. È importante andare oltre la memoria per arrivare alla storia. Questo ragionamento mi ha colpito, perché non è ovvio, ma è semplice. La cifra stilistica di Barbero, del resto, è un’efficace assenza di banalità.
Di norma nel discorso pubblico tendiamo a considerare la memoria come il punto più alto della consapevolezza umana, e come un passaggio fondamentale per il mantenimento della buona salute di una civiltà. Coltivare la memoria. Non dimenticare. Ma la memoria, che per forza parte sempre dall’autobiografia, per quanto importante non può essere una religione. Non può essere il filtro indiscutibile di ogni cosa. Si dirà: «Ma c’è la memoria collettiva!». Eppure la memoria collettiva non è la storia. Ha più a che fare col mito, con l’identità come sentimento.
Oggi diamo molta importanza alla definizione precisa dell’identità, al racconto personale, all’esperienza diretta, alla ricostruzione del vissuto. Dunque il discorso di Barbero, ripeto, non è ovvio, anche se semplice. Non è un discorso che subito si intona al nostro tempo. Oggi si tende a essere convinti del potere indiscutibile della memoria.
Errori e distorsioni
La memoria in realtà è piena di errori, e nel suo stesso funzionamento ha delle distorsioni: si pensi alla differenza fra il sé che fa esperienza e il sé ricordato, differenza studiata in psicologia. Naturalmente i difetti della memoria la rendono interessante come strumento artistico e letterario, ma non sono una garanzia se l’obiettivo è il lavoro collettivo sulla civiltà.
Mi è già capitato di scrivere di questi concetti, proprio su questo giornale, quando ho parlato di Kahneman (psicologo ed economista, premio Nobel per l’Economia scomparso da poco). Il sé che fa esperienza (“sé esperienziale”) ha a che fare con il modo in cui ci sentiamo, via via, mentre viviamo. Il sé ricordato (“sé mnemonico”) ha invece a che fare con il modo in cui ci sentiamo quando ripensiamo a un’esperienza vissuta.
Pare che il sé mnemonico valuti un’esperienza negativa facendo una sorta di “media” fra il momento peggiore e il momento finale. Se l’esperienza include un picco negativo, ma finisce con una nota positiva, il nostro ricordo sarà la media fra queste due sensazioni. Ma non sarà un ritratto dell’intera esperienza, perché questo ritratto ha qualcosa di fisicamente impossibile. Sono i limiti umani del cervello e della memoria.
Lo studio della storia ovviamente non parte da un cervello, ma dai documenti e dalle tracce (che nella storia recente sono tante), e segue un procedimento diverso: c’è un metodo, una ricerca condotta da più persone, c’è il tentativo (per quanto difficile) di una ricostruzione oggettiva e dunque del raggiungimento, in fin dei conti, di una forma di ritratto degli eventi nella loro interezza.
La scala
Non è tuttavia strano che oggi siamo molto affezionati alla memoria. Se la memoria da sola non basta, e bisogna superarla per arrivare alla storia, resta il fatto che sicuramente la memoria è pur sempre meglio della nostalgia. E dunque è naturale che venga usata come scudo immediato contro certe tendenze. Sto parlando delle tendenze portate avanti dalle destre di oggi, così identitarie, così ossessionate dalla modernità come decadenza morale, così negazioniste in campo scientifico e storico. Queste destre non si affidano alla memoria, ma a un’idea fumosa di bei tempi andati.
La nostalgia è un oggetto pericoloso, anche se affascinante. Sembra avere a che fare col passato, e dunque sembra riguardare il desiderio di fare i conti col passato, ma in realtà c’entra col desiderio, con la brama di tornare a un luogo o a un tempo che somigliano più a una scenografia di cartone che a un frammento di memoria.
Dunque la gerarchia è questa? Nostalgia in basso, memoria un po’ meglio, storia in cima? In realtà al di là della storia c’è la necessità, poi, di formulare un’idea di giustizia. La storia fornisce gli strumenti, la giustizia nasce dentro un ragionamento che richiede di elevarsi persino rispetto al dato storico. Nasce dentro un esperimento mentale che richiede di decidere quale società vorremmo a prescindere da chi siamo e da ciò che è stato. Tutto questo ovviamente è difficile.
© Riproduzione riservata