Ma il sud è una palla al piede o un’opportunità? L’Italia, che cresce meno degli altri paesi avanzati da quasi trent’anni, può trovare nel sud un’eccezionale opportunità di sviluppo: non solo per il turismo, come si sente ripetere, ma per settori industriali alla frontiera dell’innovazione, come quelli legati all’economia green; e poi perché un territorio a basso reddito, carente di infrastrutture e capitale, ha per definizione un maggiore potenziale, può «convergere», una volta che i necessari investimenti vengono messi a frutto.
Ma per fare questo occorre risolvere i problemi di contesto: l’inefficienza delle istituzioni, la più alta criminalità, il più basso capitale sociale (l’etica) e umano (l’istruzione), l’inadeguatezza delle classi dirigenti, espressione di quel contesto.
Con poche eccezioni, da decenni la politica ha rinunciato a risolvere i problemi strutturali del sud: quando andava bene adagiandosi su scelte opportunistiche, quando andava male colludendo con la criminalità o dimenticandosi del problema. Nella conseguente deriva del Mezzogiorno si è fatta strada fra le classi dirigenti una certa rassegnazione, ovvero l’idea che bisognasse puntare tutto sui territori forti, sulla «locomotiva» del nord, sperando che questa avrebbe trainato il resto d’Italia.
Fu soprattutto il centro-destra, negli anni Duemila, ad abbracciare queste tesi, ma anche il centro-sinistra ne fu tutt’altro che immune. Come accennato, è stata l’Italia tutta ad andare male (altro che locomotiva!). E il sud è diventato davvero una palla al piede, ma per le scelte opportunistiche delle nostre classi dirigenti. I governi Monti e Letta hanno tentato un cambio di passo. I loro ministri per la coesione territoriale, Fabrizio Barca e Carlo Trigilia, hanno provato a impostare una politica di lungo periodo, fatta di investimenti e modifica delle istituzioni (ad esempio centralizzando la programmazione dei fondi europei).
Il bisogno di scelte
Ma ci voleva tempo e, già con Matteo Renzi, le loro idee sono state accantonate. Quanto al Movimento 5 stelle, nel 2018 ha stravinto le elezioni al sud proponendo il reddito di cittadinanza, cioè una misura assistenziale utile a combattere la povertà, se ben congeniata, ma che non può essere certo definita una politica di sviluppo. Quasi ovunque è prevalsa, in questi decenni, l’idea della disintermediazione, dei bonus automatici, o peggio degli annunci a effetto, ma non è in questo modo che si risolvono i problemi del sud: che ha bisogno invece di scelte precise su dove investire e di riforme mirate, nelle regioni e nella pubblica amministrazione, oltre che di risorse.
Ha bisogno di una politica preparata e lungimirante. Se questo è il quadro, una svolta si delinea nel 2020. È il Pnrr, ottenuto dal governo giallo-rosso e avviato con Mario Draghi. Con il Pnrr, arrivano finalmente alle aree svantaggiate quegli investimenti in beni pubblici di cui hanno bisogno: banda larga, ferrovie, asili nido e molti altri interventi diffusi. Devono accompagnarsi a riforme che, auspicabilmente, contrastino le rendite e migliorino le regole e le istituzioni. Come ha scritto Gianfranco Viesti, il Pnrr, pur perfettibile e a tratti opaco, è un grande piano di investimenti che richiede di affrontare i nodi strutturali del nostro paese, per la prima volta da decenni.
Forse per questo il governo delle destre lo sta tagliando, e i tagli colpiscono soprattutto il sud. Ha già tagliato il reddito di cittadinanza. E con l’autonomia differenziata taglierà altre risorse al Mezzogiorno, mentre cambia le regole nella direzione sbagliata (le regioni meridionali hanno bisogno di più controlli e centralizzazione, non di più autonomia). Ancora una volta, per miopia della politica, le risorse e le misure per il sud vengono a mancare. Ma a perderci rischia di essere, oggi come in passato, l’Italia tutta.
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