- Qualcuno si è pigramente precipitato a dire che con Giuseppe Bono, morto martedì 8 novembre all'età di 78 anni, se ne va l'ultimo boiardo di stato.
- Non è vero
- E’ proprio la sua parabola umana, politica e manageriale a dimostrare che in Italia i boiardi non si estinguono, semmai cambiano.
Qualcuno si è pigramente precipitato a dire che con Giuseppe Bono, morto martedì 8 novembre all'età di 78 anni, se ne va l'ultimo boiardo di stato. Non è vero, ed è proprio la sua parabola umana, politica e manageriale a dimostrare che in Italia i boiardi non si estinguono, semmai cambiano.
Era entrato nell'industria pubblica con la sua laurea in economia e commercio nel 1971, quando in America c'era Richard Nixon e in Unione Sovietica Leonid Brezhnev, mentre in Italia Giulio Andreotti ancora inseguiva il sogno di diventare presidente del Consiglio.
L'hanno liquidato sei mesi fa, dopo 51 anni, spodestato dopo 20 anni al vertice della Fincantieri, non se ne capacitava e ne ha sofferto.
Credeva che toccasse a lui decidere quando andarsene, e si capisce perché. Bono ha attraversato in scioltezza prima, seconda e terza repubblica rimanendo sempre in piedi, diventando anzi sempre più forte grazie all'esperienza specifica in un mondo dove le regole del gioco non cambiano mai.
Cos’è un boiardo
Qui occorre dare qualche notizia ai più giovani e agli smemorati. Boiardo è un antico titolo nobiliare dell'Europa dell'est che indica personaggi a cui il sovrano delegava pezzi di potere. Per questo la parola fu usata, in modo spregiativo, per indicare i manager a cui i partiti politici consegnavano la gestione dell'industria statale che è stata fino a metà degli anni Novanta grande e potente come quella privata.
Le cosiddette "partecipazioni statali" erano aziende di proprietà dello stato i cui manager prendevano ordini dai politici in modo formale, esisteva anche un apposito ministero delle Partecipazioni statali. L'idea che lo stato dovesse supplire all'inadeguatezza della borghesia industriale è stata di Benito Mussolini che negli anni '30 fondò l'Iri.
Nel dopoguerra il regime democristiano ha sviluppato fino all'esagerazione il sistema: lo stato finanzia l'industria pubblica che genera primati tecnologici e industriali (per un bel po' lo ha fatto), posti di lavoro (anche attraverso il salvataggio di aziende decotte, la cosiddetta irizzazione) e finanziamenti per i partiti. Il meccanismo è codificato.
L'Iri, il gigante (contiene i telefoni, le autostrade, la siderurgia, l'industria militare e aeronautica, la cantieristica, l'Alfa Romeo e tante altre cose, comprese le concessionarie di pubblicità per i giornali di partito), è della Dc. L'Eni, il petrolio, è dei socialisti. L'Efim, il più piccolo e malmesso, è in condominio tra socialisti, socialdemocratici e repubblicani.
Tra tanti manager un po' così, scelti per l'obbedienza al politico che li ha nominati, Bono si segnala per decisione e capacità: socialista ma bravo, si diceva.
Con l'inchiesta Mani pulite (1992) il mondo cambia. Il presidente dell'Iri Franco Nobili (andreottiano) viene arrestato. Il presidente dell'Eni Gabriele Cagliari (socialista) si suicida nel carcere di San Vittore. L'Efim viene messo in liquidazione.
Nella complicata gestione dei resti, Bono, che ne è direttore generale, pilota il passaggio a Finmeccanica delle fabbriche di armi dell'ente minore come l'Oto Melara. E si accasa in Finmeccanica come direttore generale prima e amministratore delegato poi.
Nel 2002 il governo Berlusconi sceglie come numero uno di Finmeccanica Pier Francesco Guarguaglini e Bono viene spedito a prendere il posto di Guarguaglini alla Fincantieri. Si installa a Trieste e regna indisturbato.
Senza più politica
Il fatto è che con Mani pulite la politica forte si dissolve, Andreotti finisce a processo per mafia, Craxi latitante in Tunisia, Arnaldo Forlani processato e condannato per il caso Enimont. E così i boiardi si trovano all'improvviso senza padrini politici, ma anche senza padroni.
Molti finiscono nei guai per le tangenti pagate ai partiti, altri si dissolvono o passano al privato. Pochi, e Bono è il più interessante di questa categoria, capiscono che la politica debole è la loro occasione. Certo, non diventano padroni come i loro colleghi ex sovietici, gli oligarghi, però diventano potentissimi.
Perché la politica, in mano prima a seconde linee inadeguate e poi a terze linee incapaci, non ha più la capacità né la forza di dare ordini ai boiardi. Semmai chiede favori. E Bono di favori ne ha fatti tanti, per perseguire un suo disegno.
Con un alto concetto di sé, riteneva suo dovere dirigere l'industria cantieristica secondo gli interessi generali, che implicavano prima il finanziamento dei partiti come dovere, poi i piccoli favori a politici miserabili come pedaggio da pagare per fare le cose giuste.
Questa capacità di leggere il cambiamento spiega la longevità politica e professionale di "Peppino" Bono, e un giorno la sua storia sarà utile a capire che diavolo è accaduto in Italia in questi 50 anni di inarrestabile corsa all'insuccesso.
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