- Hanno fatto, giustamente, molto scalpore le dichiarazioni sull’omosessualità del senatore Malan, che paiono essere direttamente uscite da una caverna medievale, per usare un’immagine stereotipata.
- Quasi nessuna reazione ha suscitato, invece, la risposta, come sempre via Twitter, di Carlo Calenda.
- Osservando gli attacchi recenti alla pratica ebraica si capisce l’utilizzo strumentale della definizione di radici giudaico-cristiane, propagandata in ossequio al clima da scontro di civiltà post 11 settembre.
Hanno fatto, giustamente, molto scalpore le dichiarazioni sull’omosessualità del senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan, che paiono essere uscite da una caverna medievale. Essendosi sempre distinta per la propria apertura ai temi etici, siamo sicuri che la chiesa valdese, a cui Malan appartiene, interverrà per far sentire la sua voce.
Quasi nessuna reazione ha suscitato, invece, la risposta, come sempre via Twitter, di Carlo Calenda, che ha scritto testualmente: «Non so come qualificare queste esternazioni. Personalmente le considero indegne e sintomo di una profonda ignoranza. Se le nostre regole derivassero dal vecchio testamento non saremmo molto diversi dai talebani. Per fortuna abbiamo avuto il Vangelo e lo Stato laico».
Quando si dice peggio il tacon del buso. In un solo tweet, Calenda è riuscito a riproporre come niente fosse i peggiori pregiudizi antigiudaici, che descrivono l’ebraismo come una religione chiusa in se stessa, legalista, spietata e peggio, superata dalla predicazione evangelica, secondo classico schema della teologia della sostituzione che tante catastrofi ha creato in occidente e che, purtroppo, fatica ad uscire dalla mente delle persone nonostante la grande svolta del Concilio Vaticano II.
Calenda è totalmente ignorante delle grandi questioni che hanno attraversato la storia e la cultura occidentale, nonostante sia nato e cresciuto nella città in cui vive la più antica comunità della diaspora ebraica dell’Occidente.
Le sue reazioni ai commenti al suo tweet, in cui rifiuta l’accusa di antisemitismo dichiarandosi ateo, dimostrano una volta di più un’assoluta inconsapevolezza. Come se, poi, la cultura laica fosse stata esente dal virus antisemita.
Calenda dovrebbe rileggersi il dibattito sulla questione israelita che attraversa la Francia post-rivoluzionaria. Oppure l’antisemitismo dei bolscevichi che cannoneggiavano le chiese per dimostrare il proprio ateismo.
Si tratta di eredità culturali, non di fede personale. Quando arriverà la risposta, scontata, della comunità o della stampa ebraica, siamo sicuri che i toni saranno diversi.
La vicenda dimostra anche quanto sia subdolo il pregiudizio antigiudaico, l’unico, a mio modo di vedere, che sia diretta espressione dell’universalismo occidentale piuttosto che una sua contraddizione, come per tutte le forme di razzismo.
Infine, dimostra quanto fosse strumentale la definizione di radici giudaico-cristiane, nata negli ambienti conciliari sopra ricordati, ma propagandata negli ultimi anni in ossequio al clima da scontro di civiltà post 11 settembre.
Osservando come ancora circolino, persino all’insaputa di chi le scrive, considerazioni di questo genere; osservando poi gli attacchi di questi anni alla macellazione rituale e alla circoncisione, perpetrati proprio sulla stessa idea di un ebraismo insensibile alla sofferenza altrui e genuflesso alla sacralità della legge (davvero non conosce il mondo ebraico chi ha quest’immagine), ci si chiede: scusate, ma per cosa stava quel «guidaiche»?
Si spera che Calenda, sempre pronto a dare degli ignoranti agli altri, si confronti con la sterminata letteratura post-conciliare, dunque assolutamente cristiana, per non cadere in errori che rischiano di risvegliare fantasmi già ampiamente in circolazione. Si consiglia di iniziare dall’immenso lavoro decennale del Monastero di Camaldoli.
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