La premier resta la leader di un partito di estrema destra che non riesce ad assumere una postura e un eloquio istituzionale. E per questo motivo attacca a testa bassa Prodi e Monti, colpevoli di aver espresso una loro opinione
Prima ad Atreju e vabbè era il popolo di partito, ma poi in Parlamento, la più alta istituzione rappresentativa della Repubblica di tutti, con all’ordine del giorno l’Italia in Europa. E tuttavia il film è stato lo stesso.
Come usa dire, lo stile è l’uomo. Ciò vale anche per la donna. Alludo naturalmente a Meloni. Ormai abbiamo imparato a conoscerla. È più forte di lei. Non le riesce di assumere una postura e un eloquio istituzionale. Da presidente del Consiglio anziché da capo fazione comiziante. Gesticola, fa smorfie e moine, strilla. Aggredisce e fa la vittima. È la sua indole, il suo dna, la più vera identità dalla quale non riesce a emanciparsi.
A questo punto, non dovremmo più stupirci e smettere di fare i petulanti, chiedendole di indossare una maschera che non le si confà. In un certo senso, per analogia, è come l’annosa questione del suo negletto antifascismo.
Inutile insistere nel chiederle di fare professione di esso. Dovremmo avere inteso che non ce la fa, non vuole o non le riesce. Perché mai costringerla all’ipocrisia? Sospetto che tra le due cose - l’indole da capo fazione e quella che le impedisce di dichiararsi antifascista - vi sia una relazione. Dunque, dovremmo noi piantarla di pretendere che lei si snaturi. Ciò tuttavia non ci impedisce di rimarcare le sue contraddizioni. Merita segnalarne due affiorate nel recente dibattito parlamentare in vista del primo Consiglio Ue dopo il via alla Commissione von der Leyen. Dibattito nel quale bersagli della nostra, tra gli altri, sono stati due ex presidenti del Consiglio ovvero Mario Monti e Romano Prodi.
Meloni ha reagito scompostamente a Monti che, civilmente, le suggeriva di non indulgere al provincialismo e all’autocelebrazione per il plauso dei potenti e la richiamava al dovere di garantire la dignità e l’autonomia dello Stato dalle invasioni di campo e dalla protervia di chi, come Musk, con cui Meloni ostenta tanta confidenza, incarna un doppio, esorbitante potere: quello del denaro e della tecnologia e quello di braccio destro del neoeletto presidente Usa. Né più né meno che il monito levato nelle stesse ore dal presidente Mattarella contro i campioni del capitalismo «usurpatori di sovranità». Evidentemente un nervo scoperto per chi si professa patriota e fiero cantore della nazione.
Nella medesima circostanza, Meloni ha ricoperto di insulti Prodi, a sua volta colpevole di avere eccepito su un certo suo appiattimento sui voleri degli Usa a discapito di una relativa autonomia strategica dell’Europa. Nel mentre una testata non ostile al governo come il Foglio le suggeriva semmai di ispirarsi all’europeismo riformista di Prodi, il cui opposto è il populismo del suo partner Salvini.
Sorprende come Meloni, in un contesto nel quale si ragionava di Ue, abbia sparato bordate contro due ex premier, Monti e Prodi, che, persino con un eccesso di senso superiore dello Stato, si erano spesi per convincere l’opposizione e segnatamente il Pd perché ingoiassero il rospo politico del commissario Fitto. Cosa tutt’altro che scontata per chi sta dentro l’agone politico in Italia e in Europa. Dovendo cioè il Pd chiudere un occhio sul voto contrario (tutto politico e di parte, rivendicato come tale dalla Meloni e da Fdi) al bis alla presidente von der Leyen e sulla sua politica andreottiana dei due forni tra le famiglie politiche europee.
Un voto che solo poi, grazie a un disinvolto ravvedimento, ha cambiato di segno per incassare il sì a Fitto. Uno sfrontato saggio acrobatico quello di ingaggiare sguaiate polemiche con Prodi, Monti e il Pd nel mentre il suo alleato nonché vicepremier Salvini ribadivano il voto contrario alla Commissione e ostentatamente disertavano il parlamento cui lei riferiva.
Un comportamento che riesce inspiegabile anche agli osservatori meno critici, forse rivelatore di un malcelato nervosismo e della propensione a trasformare la contesa politica in un referendum nazionale su sé stessa, traguardando all’orizzonte di una batteria di referendum decisamente per lei insidiosi. Tuttavia, azzardo, un istinto più che un disegno tributario di un ego ipertrofico a sua volta nutrito dai media servili che ne celebrano le gesta. Un istinto insidioso, il suo, che evoca la rana (e il bue) di Esopo di cui sarebbe saggio diffidare.
Resta agli atti il confronto impietoso tra Meloni e due ex inquilini di palazzo Chigi non più nel vivo della contesa politica contingente: una differenza di standing, di stile e di sostanza nel mostrarsi uomini di Stato e, insieme, europeisti non à la carte e a giorni alterni.
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