La tregua che la vittoria in Sardegna ha segnato rispetto allo scontro interno potrebbe essere l’occasione per chiedersi se davvero la sua leadership sia un problema per il Pd
Non l’avevano vista arrivare, ora la vedono proseguire contro i pronostici negativi e l’opposizione non sempre mascherata di importanti componenti del Partito democratico. A un anno quasi esatto dalla vittoria delle primarie, Elly Schlein ha superato il primo vero test elettorale per la sua leadership, e banco di prova per la sua strategia del campo largo con il Movimento 5 Stelle.
Il risultato del Pd, primo partito in Sardegna, e la vittoria della candidata di coalizione Alessandra Todde mettono dunque la prima segretaria donna almeno temporaneamente al riparo dalle spinte interne per sostituirla. E la sua resistenza è, in sé, un segnale che merita attenzione.
Perché, innanzitutto, potrebbe rivelare che non si è esaurita ancora quella corrente di desiderio che un anno fa ha portato ai gazebo un popolo di non appartenenti, pezzi di società fuori dal partito come gruppi femministi, ambientalisti, antirazzisti, reti del sociale e organizzazioni giovanili che hanno visto nella candidatura di Schlein la possibilità di un cambiamento. In questa luce, apparirebbero illusori e già superati dal corso politico i tentativi di riavvolgere il nastro, riportare alla guida del partito qualche rassicurante pezzo d’apparato storico e fermare quella che alcuni temono come una pericolosa “deriva a sinistra”.
In secondo luogo, il primo vero successo di Schlein potrebbe rivelare la sintonia del suo progetto politico con il sistema dei bisogni dell’elettorato di riferimento. Una corrispondenza che vale, da sola, come replica alle critiche sia dei cosiddetti “riformisti” sia della sinistra “conservatrice”. Sia, cioè, di coloro che rifiutano di consegnare al passato la fantasia blairiana della Terza via; sia di coloro che prescrivono per il futuro la riproposizione stilizzata fino al caricaturale di una sinistra che abbandona le battaglie civili e di libertà in favore della protezione sociale, anche liberandosi dei propositi di “inclusione” per difendere i lavoratori “nativi” dalla minaccia degli stranieri o premendo il freno sulla transizione verde.
In questa seconda visione, espressa per esempio dal sociologo Luca Ricolfi in un’intervista a La Stampa, non solo la sinistra per vincere dovrebbe rendersi più simile possibile alla destra, condannando di fatto all’abbandono categorie sociali che non possono trovare rappresentanza se non all’interno di una forza progressista, ma la presunta contraddizione tra categorie di diritti, civili e sociali, qualificherebbe come anti-popolare ogni tentativo di coniugare la lotta alle discriminazioni con politiche redistributive.
Che i due fronti siano tra loro in contraddizione è, invece, tutt’altro che ovvio. Si può ben argomentare il contrario, sostenere cioè che i due ordini di questioni sono difficilmente separabili, perché solo le garanzie dei diritti sociali permettono di esercitare effettivamente i diritti civili e politici, e solo in condizioni di non discriminazione – tra donne e uomini, tra cittadini e migranti, tra maggioranze e minoranze etniche o sessuali – si possono ridurre le disuguaglianze di tipo sostanziale.
Quella che Elly Schlein ha messo in campo è la proposta di un partito che unisca le battaglie contro le disuguaglianze distributive con quelle miranti a contrastare altre forme di oppressione. La tregua che la vittoria in Sardegna ha segnato rispetto allo scontro interno potrebbe dare l’occasione agli oppositori per chiedersi se davvero la sua leadership sia un problema per il Pd, o il Pd il problema che impedisce di costruire una sinistra all’altezza delle sfide del tempo.
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