Quel genio improbabile di Enzo Jannacci, dedicava Prete Liprando e il giudizio di Dio, uno dei suoi primi brani, «a tutti quelli, e sono tanti, che pur essendo testimoni di fatti importantissimi e determinanti nell’evoluzione della civiltà, neanche se ne accorgono». Siamo in molti, ancora oggi, a far parte di quella schiera, che non percepisce bene cosa sta accadendo.
Da un lato abbiamo una narrazione dominante, e vincente visti i risultati delle ultime elezioni, delle destre che paventano la sostituzione etnica, mettono in atto progetti di deportazione al di là del mare nel nome di un sovranismo patriottico che odora di una certa “purezza” etnica. Dobbiamo difendere la nostra cultura (e dietro questa parola si nasconde spesso la vecchia idea di razza), prima gli italiani e così via. L’altro viene sempre più spesso declinato come icona di ogni male.
Da parte della sinistra è invece venuta a mancare totalmente una narrazione opposta, positiva e inclusiva. Ci si limita a parlare di accoglienza, come se fosse solo un’opera di carità, peraltro in modo vago che finisce per essere immediatamente seppellito sotto l’epiteto “buonista”.
Non solo sport
In mezzo c’è il paese reale, quello vissuto nella sua quotidianità, che non passa per gli spot elettorali e che ci racconta una realtà alquanto diversa. I recenti campionati di atletica ci hanno restituito un’immagine ben diversa da quelle narrate. Visti da fuori, trasmettono l’idea di una società multietnica, meticciata e multiculturale e quelle ragazze e quei ragazzi sono dei vincenti, che si sentono pienamente italiani (a proposito di patriottismo).
Usare lo sport come prova, lo so, comporta dei rischi: come sostiene l’amico Lilian Thuram, si finisce per dire che i neri sono forti fisicamente, per escludere che lo siano anche culturalmente.
Prendiamo allora il mondo del lavoro: il Nordest, l’area italiana più produttiva, fatta da un tessuto di piccoli imprenditori e peraltro feudo leghista della prima ora, deve gran parte delle sue fortune ai lavoratori stranieri, che per certi versi sono pienamente integrati nelle comunità locali. Il lavoro è un forte fattore di integrazione, come lo fu negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso nel triangolo industriale con i lavoratori venuti dalle regioni dell’Italia meridionale.
Proprio in questi mesi a Genova è partito un grande cantiere per la ristrutturazione dell’area dell’Expo, alla foce del torrente Bisagno. In quel cantiere lavorano oltre cinquecento operai e imprenditori stranieri di provenienza alquanto diversa. Anche nelle campagne italiane, in particolare nelle aree vinicole troviamo moltissimi lavoratori di origine straniera. Per non parlare delle badanti a cui affidiamo i nostri cari.
Realtà e menzogne
Questa è la realtà, il problema è che non la si vuole dire, si continuano a ripetere come litanie frasi vuote e menzognere come “ci rubano il lavoro”, “portano malattie”, “quanto ci costano”, mentre queste donne e questi uomini sono una risorsa per la nostra economia, ma contribuiscono anche a un cambiamento dal basso, uguale ai molti avvenuti durante il corso della storia e non solo della nostra.
Le retoriche sovraniste, modo elegante per non dire nazionaliste, si scontrano con le vicende di qualunque popolo: il meticciato è la chiave di ogni vicenda nazionale, ci siamo sempre mescolati, ce lo racconta anche il nostro Dna. La storia dell’umanità è fatta con i piedi, è una storia in cammino e di scambi. Il problema è che non lo vogliamo ammettere, come se affermare questo semplice ed evidente dato storico “inquinasse” la nostra purezza.
«È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici» recitava il punto 5 del Manifesto della razza, mistificando sfacciatamente la storia, per concludere al punto successivo: «Esiste ormai una pura razza italiana».
Oggi non si parla più di razza, ma la retorica è la stessa, falsa come allora. La realtà è che stiamo diventando un paese multiculturale (cioè, normale) a nostra insaputa. E allora, in risposto all’elogio sovranista, rileggiamo le malinconiche parole dei protagonisti di “Dell’amore e di altri demoni” di Gabriel Garcia Marquez: «Alla mia età, e con tanto di quel sangue mescolato, non so più con sicurezza di dove sono» disse Delaura, «Né chi sono». «Nessuno lo sa in questi regni» disse Abrenuncio, «E credo che ci vorranno secoli per saperlo».
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