- Anche grazie al Covid-19, le regioni hanno acquisito un ruolo che non avevano mai avuto in cinquant’anni di storia.
- In realtà non si è manifestata una maggiore efficienza delle macchine amministrative regionali, né una maggiore efficacia delle decisioni prese. Il successo deriva forse dalla necessità di avere “rassicurazioni” locali, durante la pandemia.
- L’identità territoriale sembra che arrivi prima delle passioni politiche. La spinta regionalista sembra in sintonia con il populismo territoriale.
L’istituto regionale è il vero vincitore di queste elezioni. Certo, i voti e la vittoria sono appannaggio di Luca Zaia e Vincenzo De Luca, di Eugenio Giani e di Giovanni Toti, di Michele Emiliano e di Francesco Acquaroli, ma le regioni si sono conquistate un ruolo nella politica italiana (e nella pubblica opinione) che non avevano mai avuto nel corso di 50 anni di esistenza. Il Covid-19 ha dato loro la consacrazione definitiva. Oggi le regioni e i loro presidenti assurgono ad un protagonismo quasi paritario con le due camere a Roma, e competono con molti ministeri per attribuzione di competenze e di risorse. Anche la conferenza Stato-regioni aumenterà di peso e di funzioni. La politica nazionale perde di attrattività, quella regionale la conquista. Tutto questo è avvenuto senza che sia stata approvata “l’autonomia differenziata” richiesta da un referendum tre anni fa. Si è affermato, invece, un regionalismo rivendicativo e identitario che trova concordi quasi tutti i rappresentanti del centrodestra e del centrosinistra, al nord come al sud. I Cinque stelle sembrano essere l’espressione di questa accelerazione improvvisa: sono sovra-rappresentati nel livello politico che si andrà a ridimensionare grazie anche al loro “picconamento”, cioè il parlamento nazionale dopo la vittoria del Sì al referendum, e sono inesistenti o ininfluenti nel livello istituzionale che si va rafforzando, quello regionale che hanno sottovalutato, isolandosi nelle alleanze. A cosa è dovuto questo nuovo protagonismo delle regioni che appanna anche il ruolo delle grandi città e dei loro sindaci?
La rinascita
Pochi anni fa le regioni erano state al centro di numerosi casi di corruzione e di sperpero di denaro pubblico al punto da farle considerare dalla stragrande parte dei cittadini i luoghi per antonomasia della “malapolitica”. Quelle meridionali, in particolare, erano stigmatizzate per lo spreco impressionante di denaro pubblico e per la cronica incapacità di spendere i fondi europei. Il Covid-19 ha modificato lo scenario. Eppure non si è palesata con un’assoluta evidenza una maggiore efficienza delle macchine amministrative regionali né una maggiore efficacia delle decisioni prese. Non si è avuto nessun riscontro in questa fase storica che i livelli regionali abbiano dimostrato più alte capacità e competenze dei livelli amministrativi centrali. Come mai, allora, tanto consenso e, nel caso della Puglia, un radicale ribaltamento delle previsioni? Forse la spiegazione sta nel fatto che la crisi Covid-19 ha sviluppato una richiesta di “rassicurazione” ravvicinata dalla paura del contagio, un bisogno di protezione che si è identificata nei presidenti uscenti delle regioni, a cui veniva concessa una visibilità dei media mai registrata prima. Ma questa spiegazione da sola non è sufficiente, anche se le elezioni si sono svolte in un momento di forte emotività degli elettori per le notizie dei contagi in aumento dopo l’estate. Il Covid-19 ha accelerato la crisi di rappresentanza del sistema politico e dei partiti in Italia: l’identità territoriale sembra venire prima delle idee e delle passioni politiche di un tempo. Allo slogan “prima gli italiani”, si affianca quello che sostiene “prima i veneti; prima i campani; prima i pugliesi; prima i toscani”. La spinta regionalista sembra più in sintonia con un populismo territoriale che con una rivendicazione di autonomia. La bilancia degli equilibri istituzionali si è spostata a favore delle regioni al di là delle capacità effettive dimostrate dai singoli presidenti. I territori stanno assumendo una centralità che un tempo avevano le passioni politiche e le ideologie. Al populismo mancava un apporto della sinistra italiana e un contributo delle regioni meridionali. La Campania e la Puglia hanno ovviato ampiamente a questo limite, eleggendo dei campioni di populismo. È vero che in alcune aree l’antifascismo continua a fare da collante (Toscana, Emilia, ma non più in Umbria e Marche), nel sud invece la linea di confine tra destra e sinistra sta evaporando. Ne vedremo delle belle. Ma mentre Luca Zaia dal Veneto e Stefano Bonaccini in Emilia Romagna riescono a rendersi credibili come nuovi leader nazionali di provenienza regionale, per Vincenzo De Luca in Campagnia e Michele Emiliano in Puglia l’operazione sembra più difficile. Ma ci proveranno. Il segretario del Pd Nicola Zingaretti si prepari.
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