- L’annunciato cambio di strategia della Bce potrebbe finalmente far cadere l’illusione tecnocratica e formalizzare quello che è un’evidenza: il ruolo politico della politica monetaria
- Durante i primi venti anni di esistenza la Bce ha ha avuto un comportamento asimmetrico e un impatto fondamentalmente restrittivo sulla crescita: sempre pronta a frenare al minimo segno di surriscaldamento e molto meno reattiva in caso di rallentamento.
- Con la crisi del 2008 è diventato chiaro che il solo obiettivo di inflazione è la mancanza di coordinamento con la politica di bilancio non consentono di far fronte alla tendenza cronica dell’economia verso la deflazione
La revisione della strategia di politica monetaria della Bce recentemente presentata dalla Presidente Lagarde è un evento la cui importanza va sottolineata anche se se ne è discusso poco fuori dal recinto della stampa specializzata. I cambiamenti annunciati spazzano via l’illusione tecnocratica per cui la politica monetaria potrebbe essere condotta con in mente solo l’obiettivo di stabilità dei prezzi.
Fin dalla crisi del 2008 è stato evidente, nel bene e nel male, che le scelte dell’istituto di Francoforte avevano implicazioni che andavano ben oltre l’inflazione. Sia pure senza strappi e con qualche timidezza, la nuova strategia implicitamente ufficializza il ruolo politico della Bce. Da questo sarà difficile tornare indietro anche quando prima o poi si ritroverà una qualche forma di normalità.
Per capire la potenziale portata del cambio di strategia è utile fare un passo indietro. Lo statuto della Bce risale al periodo (gli anni Novanta) in cui la maggioranza degli economisti riteneva che una banca centrale dovesse solo limitare i rischi inflazionistici e che questi fossero legati alla quantità di moneta in circolazione. Crescita e convergenza (ad esempio tra le economie della zona euro) erano appannaggio di mercati in teoria efficienti cui la mano pubblica doveva solo preoccuparsi di fornire un contesto adeguato: prezzi stabili per evitare sorprese, finanze pubbliche sotto controllo, riforme strutturali per limitare distorsioni che ostacolassero l’efficienza dei mercati.
Queste convinzioni sono alla base dell’architettura istituzionale europea, che non prevede alcuna interazione tra politiche monetaria e di bilancio, una banca centrale indipendente e un’enfasi costante sul controllo dell’inflazione (sul solco della Bundesbank tedesca).
È per questo che, fino al 2008 e poi anche dopo negli anni caldi della crisi greca, la politica economica ha avuto un comportamento asimmetrico e un impatto fondamentalmente restrittivo sulla crescita: sempre pronta a frenare al minimo segno di surriscaldamento e molto meno reattiva in caso di rallentamento.
Dopo la crisi la politica monetaria non può più essere la stessa
Con la crisi del 2008 il consenso si è incrinato ed è divenuto evidente (purtroppo con molto ritardo in Europa: le sofferenze generate dalla gestione della crisi greca avrebbero potuto essere di molto ridotte se i policymaker europei fossero stati meno sordi al dibattito accademico) che prezzi stagnanti o addirittura in calo - la deflazione - sono perniciosi per la crescita quanto l’inflazione eccessiva, ma molto più difficili da combattere.
Se per far fronte ad aumenti eccessivi dei prezzi la banca centrale può sempre aumentare il costo del denaro frenando l’attività economica, per combattere la tendenza alla stagnazione e alla deflazione non può spingere i tassi molto al di sotto di zero (il cosiddetto effective lower bound).
È per questo che negli anni scorsi tutte le banche centrali hanno dovuto ricorrere alle politiche dette non convenzionali come gli acquisti massicci di titoli o la fornitura al sistema creditizio di liquidità a lungo termine (in tempi normali, le banche centrali prestano agli operatori finanziari solo a brevissimo termine, per far fronte a temporanei problemi di liquidità); ed è per questo che le banche centrali hanno invocato (a volte, come in Europa, implorato) l’aiuto delle politiche di bilancio di cui fin dai tempi di John Maynard Keynes sappiamo che sono il mezzo più efficace per combattere una crisi di domanda.
Un ruolo politico per la Bce
In seguito a questi anni difficili tutte le banche centrali più importanti hanno ridefinito il loro mandato, prendendo atto del fatto che i rischi deflattivi nei prossimi anni saranno sempre maggiori. Recentemente la Federal Reserve americana ha adottato un obiettivo di tasso di inflazione medio che le impone di perseguire un tasso superiore al 2 per cento dopo un periodo, come quello recente, in cui è stato inferiore. La Bce non è stata così radicale, accontentandosi di abbandonare il vecchio obiettivo di un’inflazione inferiore ma vicina al tetto (invalicabile) del 2 per cento e adottando un obiettivo simmetrico, per cui l’inflazione superiore al 2 per cento è tollerata in seguito a periodi di crescita e prezzi stagnanti.
Se è vero che non ci si è spinti fino ad imporsi di perseguire tassi di inflazione più elevati, l’adozione di un obiettivo simmetrico dovrebbe contribuire in futuro a ridurre la tendenza strutturalmente deflattiva della politica monetaria. Il cambio di orientamento della Bce è rafforzato dall’abbandono dell’obiettivo di crescita degli aggregati monetari.
Si tratta di un punto tecnico, reso inoltre irrilevante dal fatto che in passato l’obiettivo è stato spesso disatteso senza troppi patemi. Tuttavia, la portata simbolica è importante, visto che l’attenzione alla crescita monetaria è retaggio di un periodo monetarista in cui si riteneva che il legame tra prezzi e quantità di moneta fosse stretto, dando alla sola banca centrale il compito di controllare l’inflazione.
Oggi la Bce si unisce alle altre banche centrali nel riconoscere che il legame tra quantità di moneta in circolazione e inflazione è labile e che per portare l’inflazione ai livelli desiderati occorre la cooperazione tra politica monetaria e politica di bilancio.
L’ultimo segnale della formalizzata “politicizzazione” della politica monetaria europea è l’abbandono della cosiddetta neutralità di mercato, che imponeva di non utilizzare valutazioni diverse dall’effetto sull’inflazione nel decidere le tipologie di titoli da acquistare.
La Bce d’ora in poi sarà un’attrice a pieno titolo della politica industriale europea privilegiando gli acquisti dei titoli “verdi” volti a finanziare investimenti nella transizione ecologica. Anche in questo caso, non è la prima né la più ardita tra le banche centrali ad aver intrapreso la svolta verde (la Bank of England si è spinta ben oltre) e gli effetti pratici non saranno particolarmente marcati. Ma il cambiamento di prospettiva è radicale e va sottolineato.
Il cambio di strategia appena annunciato viene a formalizzare un cambiamento già avvenuto nei fatti e, come spesso succede, in una Bce paralizzata dalla necessità di mediare tra falchi e colombe, è stato per certi versi timido.
Tuttavia, è stata abbandonata la finzione ormai solo formale di una politica monetaria tecnocratica. In futuro saranno gli equilibri politici in seno all’istituto di Francoforte e in generale tra i policymaker europei a determinare l’orientamento della politica monetaria, non la ricerca di chimeriche politiche ottimali.
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