- Il tetto a 240.000 euro per le alte cariche è stato fissato nel 2011 dal governo Monti: il decreto Salva Italia chiedeva sacrifici a tutti gli italiani, giusto evitare che i meno esposti alla crisi, cioè i funzionari pubblici, continuassero ad aumentarsi lo stipendio.
- Oltre a quello di genere e demografico, in Italia la terza grande frattura sociale è tra chi lavora per lo stato, spesso malpagato e disamorato ma iper tutelato, e tutti gli altri.
- I tentativi della “casta” di celebrare la chiusura del cerchio dell’antipolitica col ritorno del centrodestra al governo rischiano di scatenare una reazione difficile poi da controllare.
Confidiamo che il presidente del Consiglio Mario Draghi ripristini il tetto a 240.000 euro agli stipendi delle alte cariche pubbliche nel primo provvedimento utile, visto che ha fatto sapere di non condividere l’emendamento di Forza Italia al decreto Aiuti bis che pure era passato con parere positivo del governo.
Non saranno quei soldi risparmiati a risanare il bilancio pubblico, ma un quindicennio di anti-politica dovrebbe aver insegnato qualcosa. Di fronte alla scarsa affidabilità ed efficacia dello Stato e delle sue istituzioni, i cittadini si sono arresi e hanno iniziato a chiedere non istituzioni più efficienti ma almeno meno costose.
Il tetto a 240.000 euro per le alte cariche è stato fissato nel 2011 dal governo Monti: il decreto Salva Italia chiedeva sacrifici a tutti gli italiani, giusto evitare che i meno esposti alla crisi, cioè i funzionari pubblici, continuassero ad aumentarsi lo stipendio.
C’è qualche argomento per sostenere che amministratori delegati di grandi aziende pubbliche debbano avere stipendi in linea con quelli del settore privato (altrimenti lo stato si priverebbe di “talenti” che spesso, a vedere i risultati, sarebbe in realtà meglio lasciare ad altri).
Ma non c’è ragione per consentire incrementi di stipendio a figure che, per definizione, non hanno un mercato come i vertici degli apparati militari, quelli delle capitanerie, i capi dipartimento o i segretari generali.
Il taglio dei parlamentari, che ha reso queste elezioni ancora più controllate dai partiti e impermeabili alla volontà degli elettori, dovrebbe però aver insegnato qualcosa: limitarsi a tagliare, o a pretendere che “la casta” lavori per compensi più bassi concede solo effimere soddisfazioni. I problemi poi restano, vedi l’abolizione di province mai abolite davvero i cui vertici però ora vengono eletti dai politici e non dai cittadini.
Fallite le ricette dei Cinque stelle, possiamo sperimentare quelle liberali, a cominciare dalla trasparenza: dovrebbero essere pubblicamente accessibili non soltanto i compensi dei dirigenti pubblici, come già accade ora per quasi tutti gli enti, ma anche i benefit, le mansioni, le misure di performance, le condizioni alle quali scattano eventuali bonus.
Anche l’accesso per concorso e la successiva inamovibilità del dipendente pubblico, per quanto tutelati dalla Costituzione, cominciano a sembrare anacronistici.
Oltre a quello di genere e demografico, in Italia la terza grande frattura sociale è tra chi lavora per lo stato, spesso malpagato e disamorato ma iper tutelato, e tutti gli altri.
I tentativi della “casta” di celebrare la chiusura del cerchio dell’antipolitica col ritorno del centrodestra al governo rischiano di scatenare una reazione difficile poi da controllare.
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