Per il secondo anno consecutivo, la Giornata dell’8 marzo cade in un contesto politico segnato dalla competizione tra due donne. Un dato che permette di affrontare interrogativi complessi sul rapporto che le donne con ruoli di potere intrattengono con le istanze sollevate dai femminismi
«La libertà non è farsi chiamare “la presidenta” (sic), libertà è non dover rinunciare ai propri desideri, e lo stiamo garantendo noi». Sono parole di Giorgia Meloni, pronunciate a Cagliari nel comizio a sostegno di Paolo Truzzu. Parole che difendono quello che viene presentato come l’impegno della destra per la «vera libertà» delle donne – il sostegno alle madri lavoratrici e alle famiglie – e insieme segnalano l’obiettivo polemico: il femminismo istituzionale e le sue battaglie per il riconoscimento simbolico della differenza.
A pochi giorni di distanza, dal palco del congresso dei Socialisti europei, Elly Schlein è sembrata rispondere a queste affermazioni, parlando della necessità di una «leadership femminista» e denunciando: «Abbiamo un governo guidato per la prima volta da una donna che prende tutti i giorni decisioni contro le donne».
Tra appartenenza e trasformazione
Per il secondo anno consecutivo, la Giornata dell’8 marzo cade in un contesto politico segnato dalla competizione tra due donne, una alla guida della coalizione di governo e l’altra del maggiore partito di opposizione.
Ma questo dato, lungi dal consegnare al passato quella contraddizione tra uguaglianza formale e diseguaglianze sostanziali che è all’origine della stessa ricorrenza, permette di affrontare interrogativi più complessi sul rapporto che le donne con ruoli di potere intrattengono con le istanze sollevate nel passato e nel presente dal femminismo – o dai femminismi, al plurale.
Quale politica e quali politiche sono in grado di promuovere le donne che entrano nelle assemblee elettive e assumono incarichi di vertice? Che tipo di rapporto intrattengono con i movimenti femministi? Quali donne hanno in mente quando parlano di donne, tutte o solo alcune?
Sono domande rilevanti anche al di là del caso nazionale, in un tempo in cui sempre più figure femminili siedono ai vertici degli organi del potere legislativo, esecutivo o giudiziario – come, nell’Unione europea, Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, Roberta Metsola al Parlamento di Strasburgo, e Christine Lagarde a capo della Banca centrale.
Solo quando il “soffitto di cristallo” si infrange diventa possibile fare i conti fino in fondo con questioni complesse come il rapporto tra l’appartenenza di genere e la capacità trasformativa verso forme, linguaggi e contenuti della politica.
Le politiche “per le donne”
Perché diventa chiaro allora che alle storie di successo di donne che conquistano posizioni di guida non corrisponde di necessità un avanzamento nella condizione si altre donne, né sul piano economico-sociale né su quello dei sistemi di valore culturale. In Italia, il malessere trapela tanto dai dati sulla sottoccupazione femminile quanto da quelli sulla bassa natalità; dallo stato dei servizi per la salute sessuale e riproduttiva come dalla piaga endemica della violenza di genere. Per non dire della condizione delle donne migranti, appartenenti a minoranze etnico-razziali e sessuali, per le quali la tutela dei diritti fondamentali è ancora più fragile.
Sembra allora necessario lasciarsi definitivamente alle spalle ogni comprensione ingenua della relazione tra donne in ruoli decisionali e promozione di politiche “per le donne”. Basti pensare che negli Stati Uniti il rovesciamento di Roe vs. Wade, la sentenza che dal 1973 garantiva a livello federale il diritto di aborto, è avvenuta con l’indispensabile concorso della giudice antiabortista di nomina trumpiana Amy Coney Barrett.
Diventa importante chiedersi invece come il successo di alcune si articola con la promozione di libertà e giustizia, in tutte le sue declinazioni, per tutte.
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