Dopo il fallito attentato a Trump ci si interroga su un fenomeno vistoso e fatale: la fallita promessa della democrazia. L’attentato a un ex presidente che minaccia di riprendersi la Casa Bianca per farne la sede di una monarchia, se non assoluta, certo poco illuminata, sembra spianargli ancor più la strada. E tutto contribuisce a ingigantirne la figura, facendone di volta in volta un golpista, un criminale, un miracolato.

La minoranza dei repubblicani meno sensibili ai richiami del suo carisma si scontra o con il diffuso amore per lo strepito o con la follia dinamitarda di chi arriva a imbracciare le armi. Ma questa appunto è una manifestazione, benché eclatante, di un processo che, si diceva sopra, tocca la democrazia in quanto tale e la sua mancata promessa.

Come per un’infausta ciclicità, la politica torna a scivolare verso gli estremi, mentre il vetustissimo “centro” si fa sempre più pulviscolare in termini di successo elettorale – a meno che non solleciti, come nel caso della Francia, la riesumazione dei gloriosi argini antifascisti dei bei tempi andati. E proprio a questi tempi andati torna la mente. Se è vero com’è vero che i parallelismi storici, quantunque azzardati, soccorrono nei momenti di fragilità psichica, in questi ultimi anni sembra ci si ritrovi in quel pericoloso ciclo primo-novecentesco, in cui le istituzioni democratiche avevano perso non solo lo smalto, ma soprattutto la capacità attrattiva nei confronti delle folle.

Lo scorso secolo, più o meno a quest’altezza, avevano cominciato a farsi largo forze politiche capaci di mettere a frutto un’intuizione portentosa e luttuosamente efficace: mettere in mora l’idea che l’elettorato sia composto di individui dotati di raziocinio, che andavano convinti con argomenti e mobilitati con programmi credibili.

L’azzardo riuscitissimo di quelle forze politiche fu attuare una strategia retorica assai più efficace e adottare una tecnica di penetrazione assai più invasiva, utilizzando il canale che tocca tutti e che si irradia come per un prodigioso riverbero: le emozioni. I leader di quelle forze conclusero che per ottenere il consenso non serviva dibattere, illustrare e dar conto. All’opposto, il plauso delle genti echeggiava tanto più sonante quanto più quei maestri dell’emozionalismo facevano leva su posizioni inattendibili e promesse grandiose, utili a forgiare un delirante immaginario collettivo. Vane le opposizioni di chi, con uno strumento démodé come il ragionamento, voleva mostrarne l’irrealizzabilità e denunciare la vacuità dei novelli piazzisti.

Fino a qualche decennio fa, si credeva che questo travolgimento della ragione con il melodramma sudaticcio e l’oratoria teatrica fosse da attribuirsi a una transitoria sbandata collettiva occorsa tra le due guerre mondiali. Ma ahimè l’intensificarsi del radicalismo pare smentire questa bella speranza. Come notava ieri Nadia Urbinati, nemmeno le nostre democrazie (sedicenti) evolute riescono a sostituire “il taglio delle teste con il conteggio dei voti”.

E allora c’è da chiedersi perché oggi accada questo. La forza seduttiva dei poli sembra infatti confermare il cosiddetto “teorema Böckenförde”. L’insigne giurista sosteneva che la democrazia contemporanea viva di presupposti che non sarà mai in grado di soddisfare. Böckenförde lamentava la perdita di un ancoraggio granitico, storicamente assicurato dalla fede religiosa. La democrazia contemporanea, all’opposto, si affiderebbe a precarie credenze vetero-illuministiche, come il rispetto per le libertà individuali e la ricerca di una giustizia mondana. Così facendo, la democrazia coprirebbe l’abisso delle emozioni umane con il tappeto liso delle istituzioni.

Chi scrive non è certo propenso alla restaurazione della Respublica Christiana, ma vorrebbe almeno strappare una confessione a chi legge: quanti onestissimi difensori delle virtù democratiche, almeno per un fugace attimo, hanno in cuor loro pensato che Thomas Crooks, criminale quanto si vuole, avrebbe comunque risolto un gran problema? E allora, senza avventurarmi in presaghe diagnosi, preferisco avviare una qualche forma di pur rudimentale autoanalisi.

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