L’espressione venne adottata negli anni di costruzione del Pd per indicare una prospettiva: conquistare la maggioranza dei consensi in un sistema elettorale
Il Pd di Elly Schlein viene tacciato di non coltivare una “vocazione maggioritaria”. Una accusa che si fonda su una espressione priva di senso. L’adozione di questo termine sic et simpliciter rivela una ricezione orecchiata e mal compresa delle dinamiche politico-elettorali di paesi con sistemi elettorali maggioritari come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Questa espressione venne adottata negli anni di costruzione del Pd solo a scopo esemplificativo, per indicare quale prospettiva aveva il nuovo partito: quella di conquistare la maggioranza dei consensi in un sistema elettorale di tipo maggioritario. Il problema era, e rimane, come raggiungere tale obiettivo. Che è tutt’altra questione.
Espunto dal contesto di allora, l’espressione oggi perde di significato, mentre a leggere le cronache politiche sembra che vi siano partiti sia a vocazione maggioritaria, sia a vocazione minoritaria. Il ché suona perlomeno bizzarro, per la semplice ragione che ogni partito vuole essere maggioritario, cioè grande e di successo.
Puntare al consenso
Non esiste nei sistemi democratici alcuna formazione che non cerchi di aumentare il proprio consenso. Una leadership che si muovesse in senso contrario si candiderebbe al suicidio perché, sconfitta alla prova delle urne, verrebbe disarcionata. Alcuni, memori di lontane ere geologiche, forse pensano ai partiti rivoluzionari novecenteschi che dovevano coltivare la purezza ideologica anche a scapito di successi alle elezioni (della democrazia borghese) perché preparavano la spallata rivoluzionaria. Ma queste sono pagine ingiallite della storia senza alcun aggancio con la realtà odierna.
L’inconsistenza analitica dell’espressione vocazione maggioritaria non frena però il suo ripetuto uso e abuso. L’unico senso che si può dare a tale termine fa riferimento a una tendenza che i partiti di massa hanno sperimentato in tutta Europa dalla fine degli anni Sessanta: la diminuzione del tasso di ideologia e l’abbandono del riferimento privilegiato ad una componente sociale precisa (in particolare la classe operaia o la comunità dei fedeli) per diventare partiti “pigliatutti”.
Un processo, protrattosi per decenni, che è stato indotto due fattori socio-economici e culturali di lungo periodo: il consenso keynesiano postbellico per cui le politiche economiche e il sistema di welfare erano accettati da tutti, sia a sinistra che a destra, e l’iniziale processo di secolarizzazione. Corollario politico-elettorale di quel momento storico era la convergenza dell’elettorato al centro e di conseguenza la tendenza dei partiti a convergere anch’essi per conquistare l’elettore mediano.
Le ragioni della crisi
Quel mondo è andato in pezzi da molto tempo, da quando, tra l’altro, i partiti moderati-borghesi si sono radicalizzati verso destra e, in più, sono sorte formazioni radical-populiste ancora più a destra. Per contrastare questa tendenza i partiti della tradizione socialista in senso lato si sono spostati anch’essi verso il centro. In questo passaggio però hanno perso l’anima, la loro ragion d’essere, e con esse, i voti. La crisi della sinistra in Europa è tutta qui.
Insistere ancora su uno spostamento verso il centro perché solo così un partito tornerebbe a conquistare voti, esprime una sorprendente arretratezza analitica. In un contesto di sempre maggiore polarizzazione politico-ideologica – in Italia come nelle democrazie occidentali - vince chi marca il proprio territorio, chi definisce precise linee di intervento, non chi annacqua la propria identità (ammesso che ne abbia una…).
La cosiddetta vocazione maggioritaria del Pd, intesa banalmente come la possibilità di diventare un grande partito, si può concretizzare solo con un profilo più netto, più deciso, non con la rincorsa a (numericamente) irrilevanti elettori centristi.
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