- Non solo il Pd ha ceduto sul programma fino a scomparire, ma ha pure garantito un numero esorbitante di seggi uninominali a formazioni minuscole o virtuali come +Europa e Azione.
- La scelta di Letta rimette in moto tutto il fronte democratico.
- Con una serie di rischi: perdere la componente verde-rossa, in ascesa con il cambiamento climatico; esaltare il profilo laburista del M5s, rinvigorito nel suo appello anticasta dalla conferma del limite dei due mandati; fare di Calenda il magnete delle elezioni con connessa aspirazione di leadership sullo schieramento.
Con un certo, legittimo, orgoglio, qualche giorno fa il segretario del Pd, Enrico Letta, aveva sottolineato che il partito non fonda la sua offerta politica sulla cosiddetta agenda Draghi, bensì sull’agenda del Partito democratico.
Una precisazione necessaria di fronte all’assordante lamento degli inconsolabili orfani del Presidente del consiglio.
Il governo Draghi era un governo al quale partecipava la destra , e solo per responsabilità istituzionale e spirito di servizio il Pd ha inghiottito una serie di bocconi indigesti, dalla riforma fiscale orientata in tutt’altro senso rispetto alle direttrici (costituzionali) della progressività, alla rinuncia alla riforma del catasto e ad ogni tassazione sulla casa (che oggi sembra una bestemmia, mentre fino agli interventi sfascia-finanze di Berlusconi era tranquillamente accettata) .
Di quella agenda e di altri interventi ancora, un partito di sinistra non può che accogliere alcuni spunti. Giustamente, quindi, Letta aveva richiamato le stelle polari emerse dalla consultazione avviata tra iscritti e simpatizzanti con le “Agorà democratiche”. E le proposte più gettonate disegnano un profilo di partito di sinistra.
Tutto ciò sembra scomparso, dissolto nell’alleanza con Azione e +Più Europa. Il patto non è siglato sull’agenda Letta, bensì su quella Draghi ormai incarnata, con evidente segno di modestia, da Carlo Calenda.
La specificità del Pd si è liquefatta nel calore della trattativa con gli alleati di centro. Ora sono loro la punta di lancia della coalizione, quelli che daranno il tono al campagna elettorale, pena un coro di accuse di massimalismo verso il Partito democratico.
Non solo il Pd ha ceduto sul programma fino a scomparire, ma ha pure garantito un numero esorbitante di seggi uninominali a formazioni minuscole o virtuali come +Europa e Azione; e vedremo se questi due partiti candideranno i loro esponenti nei seggi dove la destra è forte esercitando la loro supposta e vantata capacità di attrazione dei voti moderati, o si rifugeranno nelle aree rosse e metropolitane, feudi sicuri del Pd.
La scelta di Letta rimette in moto tutto il fronte democratico. Con una serie di rischi: perdere la componente verde-rossa, in ascesa con il cambiamento climatico (percepito da tutti, quest’estate) e i Fridays for Future; esaltare il profilo laburista del M5s, rinvigorito nel suo appello anticasta dalla conferma del limite dei due mandati; fare di Calenda il magnete delle elezioni con connessa aspirazione di leadership sullo schieramento; e infine depotenziare il risultato elettorale del Pd impedendogli di giocare il ruolo di pivot nel prossimo asseto politico.
Delle due opzioni vincenti per il Pd, costruire sotto le sue ali un grande fronte competitivo con le destre (per il quale però c’è bisogno anche dei Cinque stelle, altrimenti non ci sono speranze) oppure rafforzare il proprio bacino elettorale per diventare il primo partito italiano in vista di un futuro appuntamento elettorale, ha scelto una via intermedia.
E così rimane, una volta di più, in mezzo al guado. Altro che occhi di tigre…
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