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La settimana scorsa Domani ha pubblicato un articolo su un’indagine a carico dei Caffo, Giuseppe e Sebastiano, padre e figlio, titolari dell’azienda calabrese che produce l’amaro del Capo. L’ipotesi di reato è di concorso esterno in associazione mafiosa.
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La notizia dell’indagine non è stata smentita dalla procura né da altri, eppure il loro coinvolgimento non ha acceso la curiosità di giornali e giornalisti che non hanno mai parlato della notizia.
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Nessun quotidiano nazionale ha ripreso il caso, anche molte testate calabresi lo hanno ignorato. Qualcuno ha cercato di farla passare come fake news, una testata online di Catanzaro ha titolato: «Fango su Caffo?».
L'Amaro del Capo si può bere a temperatura ambiente oppure ghiacciato, come a quanto pare piace ad alcuni ‘ndranghetisti. Ma nell’uno o nell’altro caso questo liquore, “l’amaro italiano alle erbe più amato e conosciuto”, negli ultimi giorni ci ha trascinato in una vicenda dai contorni assai strambi dove una notizia è stata cancellata dal silenzio e dal frastuono che ne è seguito. Proprio così: silenzio e frastuono insieme.
Riassumiamo i fatti. La settimana scorsa Domani pubblica un articolo a firma di Giovanni Tizian e di Nello Trocchia su un’indagine a carico dei Caffo, Giuseppe e Sebastiano, padre e figlio, titolari della famosa azienda calabrese leader in Italia nel mercato degli alcolici avendo acquisito nell’arco di pochi anni marchi storici come la pugliese Borsci San Marzano e l’olandese Petrus.
L’ipotesi di reato è di concorso esterno in associazione mafiosa, dovendo intendersi per associazione mafiosa quella dei Mancuso, potentissimi boss che abitano a Limbadi proprio come i Caffo.
L’articolo era ben documentato (c’era anche la fotocopia della carta della procura di Catanzaro con i due nomi evidenziati), equilibrato (dava conto di un’eventuale archiviazione allo scadere dei termini), corretto perché offriva ampio spazio alle dichiarazioni dei due personaggi scivolati nell’indagine.
Le difficoltà ambientali
Non siamo qui a parlare dell’inchiesta, saranno i procuratori o i giudici a decidere se i Caffo sono collusi o meno, se hanno compromissioni con la cosca di Limbadi o se al contrario sono i rappresentanti più noti di un’imprenditoria virtuosa che cresce anche in quella terra.
Siamo qui a registrare ciò che è accaduto subito dopo la pubblicazione della notizia. Niente e tutto. Niente perché quella notizia - un’indagine antimafia contro i titolari di una azienda famosa nel mondo - non è stata giudicata notizia. Nessun quotidiano nazionale ha ripreso il caso, anche molte testate calabresi lo hanno ignorato. Qualcuno ha cercato di farla passare come fake news, una testata online di Catanzaro ha titolato: «Fango su Caffo?».
La notizia dell’indagine contro i fondatori della società naturalmente non è stata smentita dalla procura né da altri, eppure il loro coinvolgimento non ha acceso la curiosità di giornali e giornalisti. Poi sono arrivate le reazioni, degli interessati e di altri.
È quasi superfluo ricordare quali siano le “difficoltà ambientali” in un paese piccolo come Limbadi, tremila abitanti, tutti che conoscono tutti, tutti che vanno ai matrimoni o ai funerali di tutti come è capitato a Giuseppe Caffo per l’ultimo saluto alla moglie del boss Pantaleone Mancuso detto "Luni Scarpuni”.
Non è questo il punto e la risposta che dà il vecchio Caffo («Siamo andati al funerale di una donna morta in modo traumatico. Dai genitori andavamo a comprare i pesci, si trattava di un lutto») non si può criminalizzare e usare come arma contro di lui.
Il punto è un altro: sono le altre sue risposte sui Mancuso. La prima: «Non penso niente né della cosca né delle persone. Erano persone che camminavano libere. Se hanno avuto dei problemi che devo fare io?». La seconda: «Io non faccio il politologo, non faccio l’inquisitore, io conosco le persone. Se queste persone sono “trattate” dagli organi dello stato, io non ho niente da rimproverargli né da rimproverarmi». Testuale.
La presunta ‘ndrangheta
Da imprenditori che giustamente rivendicano la loro onestà e la lontananza da mafie e mafiosi, ci saremmo aspettati qualcosa di più, una presa di distanza più netta da quei boss che per decenni hanno tenuto in ostaggio il paese e non solo quello, vista la loro influenza nella ‘ndrangheta.
E poi c’è stato un altro episodio, dal sapore sgradevole. Protagonista il figlio, Sebastiano Caffo, amministratore delegato della società. Poche ore dopo la pubblicazione dell’articolo che li riguardava, ha postato su facebook una foto degli autori (Tizian e Trocchia) insieme al giornalista calabrese Pietro Comito, indicandolo di fatto come il suggeritore dell’iniziativa giornalistica.
Davvero poco elegante e un po’ sopra le righe, tanto da costringere Comito a rispondere: «Stai minacciando la persona sbagliata». Al di là del silenzio dei media, questa storia dei Caffo sotto sotto sta incendiando la Calabria.
Con messaggi trasversali, parole dette e non dette, contorsioni linguistiche. C’è chi ha dato del «presunto mafioso» perfino a Pantaleone Mancuso, quel “Luni Scarpuni” che è un ergastolano e condannato al 41 bis. Se andiamo avanti così, fra poco, quando scriveremo un’altra volta di Limbadi parleremo anche di presunta ‘ndrangheta.
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