Il 19 giugno, la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge recante disposizioni per l'attuazione dell'autonomia differenziata delle regioni - il Senato lo aveva fatto a gennaio – che così è diventato ufficialmente legge dello stato e ha iniziato il suo lungo percorso che dovrebbe portare all’attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, varata nel 2001.

Aumento delle diseguaglianze 

Questa legge, che porta il nome del ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, prevede che le regioni possano richiedere l’autonomia su 23 materie specifiche - tra le quali ci sono l’istruzione, la salute, lo sport, l’ambiente, l’energia, i trasporti, la cultura e il commercio estero. Inoltre, stabilisce che per quattordici di queste materie ogni regione deve garantire a tutti i suoi residenti i cosiddetti “Livelli essenziali delle prestazioni” (Lep), per assicurare che siano raggiunti omogenei «standard minimi di prestazione su tutto il territorio nazionale», come prescrive l’articolo 117 della Costituzione.

In altre parole, ciascuna regione deve garantire ad ogni suo residente un livello minimo di “prestazioni” in ognuno di quei campi, per evitare che ci siano disparità di trattamento e disuguaglianze tra cittadini che vivono nelle diverse parti d’Italia su quelle materie che riguardano diritti civili e sociali fondamentali di ogni individuo.

Ma questa legge molto probabilmente non garantirà uguali prestazioni per tutti I cittadini italiani, anzi aumenterà il divario esistente tra le varie regioni, e soprattutto tra Nord e Sud. A patire sarà soprattutto il nostro Sistema sanitario nazionale.

La Legge 23 dicembre 1978, n. 833 che istituì il Ssn, stabiliva che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività«, e ne sanciva tre principi fondamentali: l’universalità, cioè le cure vanno garantite a tutti; l’uguaglianza, cioè le cure vanno garantite a chiunque senza disparità di trattamento; e l’equità, cioè ad ogni cittadino vanno assicurate pari cure di fronte a uguali bisogni di salute.

Le “malattie” del Ssn

Per valutare se il Ssn funzioni adeguatamente in ogni regione, si utilizzano i cosiddetti Lea - cioè i livelli essenziali di assistenza-, che non sono altro che i Lep applicati alla sanità. In pratica, ogni regione deve assicurare che sul suo territorio ad ogni cittadino vengano assicurati livelli standard di assistenza, stabiliti dallo Stato.

I Lea si basano su un meccanismo piuttosto complesso di valutazione, suddiviso in tre macro-aree: Prevenzione, Assistenza distrettuale e Assistenza ospedaliera; ciascuna di queste aree comprende una serie di indicatori denominati Core, che con un punteggio da 0 a 100 servono a misurare se quella regione ha raggiunto o no obiettivi specifici. Per esempio, una regione può avere ospedali efficientissimi – con voto 100 -, ma una rete di servizi distrettuale scarsa – con voto 10, e così via.

Idealmente, una regione perfetta sotto tutti i punti di vista in sanità potrebbe raggiungere il punteggio massimo di 300, pari al 100 per cento di adempimento in ognuna delle tre macroaree.

Allora, come funziona il Ssn nelle varie regioni italiane in base ai Lea? Gli ultimi dati forniti dal Ministero della Salute - che risalgono al 2023 - tracciano un quadro desolante: su 21 tra regioni e province a statuto speciale, 6 hanno un tasso di adempimento inferiore al 67,6 per cento (tra cui Campania, Puglia e Calabria); 5 tra il 67,6 e 76,6 per cento (tra cui Lazio e Sicilia); 5 tra il 76,7 e 85,9  (tra cui Umbria, Marche e Liguria), e solo 5 oltre l’85,5 per cento (Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana).

Il che significa che la sanità pubblica funziona bene – cioè offre tutti i servizi necessari e minimi ai cittadini - solo in 5 regioni su 21, tutte del nord, mentre al centro e soprattutto al sud e nelle isole la sanità funziona male o malissimo. Questo enorme divario tra Nord e Sud ha profondissime conseguenze economiche, sociali, ed umane.

Sud sempre più povero

La prima conseguenza è che ogni giorno migliaia di italiani sono costretti a scappare dal Sud per curarsi al Nord. Il rapporto Gimbe relativo all’anno 2021 (dati più recenti non sono disponibili), stima che questa mobilità sanitaria costi allo Stato 4 miliardi e 247 milioni l’anno, con un tragico squilibrio fra tre regioni del Nord, che hanno un saldo positivo - Emilia-Romagna +442, Lombardia +271, e Veneto + 228 milioni di euro - e le regioni del Sud e delle isole - fra cui spiccano Calabria, Campania e Sicilia -, che hanno deficit di -252, -221 e -177 milioni di euro, rispettivamente.

In sostanza, le regioni già povere del Sud versano alle regioni ricche del nord centinaia di milioni di euro per saldare le spese sanitarie dei loro cittadini che là devono migrare per curarsi. Così, le regioni più povere si impoveriscono e quelle più ricche si arricchiscono sempre di più. E quando la legge entrerà in vigore andrà anche peggio.

Inoltre, più del 50 per cento delle prestazioni ambulatoriali e dei ricoveri vengono erogati da strutture private accreditate: il che significa che già ora molti cittadini sono costretti a rivolgersi a cliniche e ambulatori privati accreditati, che spesso hanno sede nel ricco Nord, per ricoveri, cure e esami clinici; e lo Stato versa al privato i rimborsi per quelle prestazioni.

Nel 2022, la spesa sanitaria è stata di 171,86 miliardi di euro, così ripartiti: 130,36 miliardi di spesa pubblica, cioè soldi versati dallo Stato, e 41,5 miliardi di spesa privata - di cui 36,83 miliardi sono soldi che i cittadini hanno pagato di tasca propria per pagare farmaci o curarsi in cliniche private, e 4,66 miliardi sono stati pagati dalle assicurazioni sanitarie. Si stima che dei 171,86 miliardi di euro sborsati dallo Stato il 67 per cento (circa 115 miliardi) sia andato al pubblico e il restante 37 (circa 56 miliardi) alle cliniche private accreditate.

Quando andrà in vigore la legge, i cittadini del Sud saranno costretti sempre più a curarsi negli ospedali pubblici e privati del Nord, così sempre più soldi si trasferiranno delle ragioni povere a quelle già ricche del settentrione e finiranno nelle tasche del privato, facendo aumentare squilibri e diseguaglianze.

Anche nella prevenzione ci sono enormi disuguaglianze tra Nord e Sud, che la legge non allevierà: secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Screening, per esempio, nel 2022 nelle regioni del nord è stato effettuato l’80 per cento degli screening mammografici per il cancro al seno, nelle regioni del centro il 77 per cento, e in quelle del Sud solo il 58.

Sanità senza risorse 

La tragica situazione attuale è il risultato del progressivo definanziamento del Ssn, portato avanti senza distinzione dai tutti i governi degli ultimi venti anni: a causa della carenza di risorse, i medici e gli infermieri italiani sono tra i peggio pagati e i più sfruttati d’Europa.

Secondo l’Ocse, un medico italiano guadagna circa 100 mila euro l’anno, contro i 188 mila di un tedesco o i 190 mila di uno olandese; un infermiere italiano 39 mila, contro gli 87 mila di uno belga o i 59 mila di uno tedesco. Ogni giorno, un numero preoccupante di medici e infermieri si rifugiano a lavorare nel settore privato, o all’estero, dove possono ricevere stipendi molto più alti.

Negli ospedali pubblici, reparti di importanza fondamentale come il Pronto Soccorso e la Terapia Intensiva soffrono di croniche carenze di personale, specie nel meridione e nelle isole. Molte regioni, specie quelle del Sud, abbandonano progressivamente i programmi di screening per la prevenzione oncologica, e questo porta ad un aumento di mortalità per tumore in quelle aree. Le liste d’attesa si allungano sempre di più, specie al Sud e per visite ed esami non urgenti, e di conseguenza sempre più cittadini sono costretti a rivolgersi a strutture private pagando di tasca propria.

Sempre più cittadini del meridione sono costretti a migrare al Nord per curarsi. Sempre più cittadini si rivolgono alle strutture sanitarie private del Nord per cure specialistiche.

Tutti questo ha drammatiche ripercussioni sulla vita dei cittadini. Chi abita nelle regioni del Nord ha un’aspettativa di vita di circa 84 anni, chi abita in quelle del Sud di circa 82 anni, e chi abita in Campania solo di 81, record negativo d’Italia. Con la legge dell’autonomia differenziata, le cose non potranno che peggiorare.

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