- Un terzo delle persone che usano sostanze ce la fanno da sole, magari cambiando città, innamorandosi. Un terzo vanno avanti, fra alti e bassi, con dipendenze decennali: dopo il servizio terapeutico trovano un equilibrio, magari aiutandosi con un po’ di alcol, ma ce la fanno.
- Poi ci sono quelli che non ce la fanno mai, che vivono tra ricadute continue, schiacciati da un desiderio molto più grande di loro, infelicità, condizioni di vita insopportabili.
- La loro morte spesso è da considerare come un suicidio atteso. Sono i più fragili. Non sono marziani. Sono figli, amici, genitori, vicini di casa, il ragazzo che incontriamo al bar tutte le mattine, la madre di una compagna di scuola di nostra figlia.
Nel 1984 Daniela Costantini, allora giovane psicologa del team di Luigi Cancrini, pubblica una serie di riflessioni su un fenomeno relativamente nuovo, almeno in Italia: quello delle Comunità terapeutiche. L’espressione, tuttavia, non è nuova, almeno per chi si interessa di psichiatria: richiama, infatti, gli esperimenti messi a punto dallo psichiatra Maxwell Jones nell’Inghilterra degli anni Cinquanta.
Il movimento delle “porte aperte”, nei reparti dove i “malati di mente” sono stati fino ad allora reclusi, la messa a punto di una nuova concezione nella cura della malattia mentale, l’idea che per superare l’istituzionalizzazione di un soggetto, ovvero la sua definizione entro uno schema rigido fissato dall’istituzione che lo ospita, bisogna lavorare nella comunità in cui questo soggetto si trova a vivere e, spesso, ad ammalarsi.
La comunità terapeutica, così intesa, in Italia viene sperimentata da Franco Basaglia a Gorizia, e, alla fine degli anni Sessanta, è uso riferirsi a ogni processo di trasformazione in atto a partire dal paradigma comunitario, soprattutto in ambito educativo. Abbiamo così la comunità auto educante quando parliamo di scuola o della relazione fra scuola e città e così via.
Ma, rileva Costantini nel suo volume, Le comunità terapeutiche per tossicodipendenti, a inizio anni Ottanta l’espressione ha acquisito un significato completamente diverso a partire dalla diffusione di luoghi auto definitisi “comunità terapeutiche” che niente hanno a che vedere con il progetto di Maxwell Jones.
Comunità per drogati
Questi luoghi sono le “comunità per “drogati”, dove a volte vigono contenzione, pratiche autoritarie e, sicuramente, una nuova istituzionalizzazione del soggetto. Mentre il malato di mente smette di essere “matto” alla fine degli anni Settanta ed esce dal manicomio, il soggetto dipendente da sostanze psicotrope diventa “drogato” e finisce in comunità.
«Sembrava in quel periodo che fosse scoppiato un vero e proprio boom delle comunità: nel clima di sfiducia e di demoralizzazione per i tanti fallimenti, una schiera di volontari faceva sentire la propria voce affermandosi come coloro che, senza soldi, senza preparazione tecnica e senza un riconoscimento giuridico, sapevano cosa era necessario fare per opporsi all’incalzare del fenomeno droga».
Così, durante ogni iniziativa pubblica organizzata per discutere il preoccupante aumentare degli “eroinomani”, non manca mai lo scontro fra chi accusa i centri pubblici di essere “spacci di metadone” e quelli “privati” di essere luoghi dove si fa il lavaggio del cervello ai giovani per allontanarli dall’eroina.
Inizia a farsi largo l’idea che le comunità siano davvero, per usare un’espressione di Costantini, le Lourdes della droga.
Un’idea ancora oggi ampiamente diffusa, anche grazie alla pervasività narrativa di alcuni modelli diventati paradigmatici come quello di San Patrignano, per esempio. Fuori dalla Comunità non c’è salvezza (né alternativa).
E anche se non è così si inizia a dire che gli interventi pubblici messi in campo dalla legge 685 del 1975 non hanno funzionato. Il dilagare delle “tossicodipendenze” ne sarebbe la prova.
Le misure coercitive
Ovviamente non possiamo sapere cosa sarebbero stati gli anni Ottanta senza i primi centri pubblici anti droga e l’assunzione di responsabilità in tema dipendenze da parte del Servizio sanitario pubblico imposto dalla 685.
Certo è, però, che a metà decennio serpeggia uno scontento nell’opinione pubblica amplificato dai media grazie ad alcune prese di posizione eccellenti che invocano misure coercitive se non punitive contro i “drogati”.
I primi a chiedere il ricovero coatto sono stati i familiari stessi, esausti, disperati, come raccontano le tante lettere che escono sui quotidiani e che i quotidiani metteranno per un decennio in prima pagina. Nel 1981 nasce a Torino LENAD, la lega nazionale anti droga che dà voce alle “famiglie”. Fra i fondatori Piera Piatti, psichiatra. Contrari all’uso di metadone, visto come un “perpetuatore di assuefazione”, propugnano il ricovero obbligatorio.
Questa posizione diventa poco a poco prevalente nella società italiana, o quantomeno nei partiti al governo, al punto che nel 1990 sarà reintrodotta anche la punibilità per chi possiede una modica quantità di sostanze.
Una posizione che coincide con una vera e propria reazione epocale contro lo stato sociale. Una reazione (backlash) che giunge da oltre oceano e spinge verso una progressiva privatizzazione dei servizi che anche se non si realizzerà mai crea forti squilibri territoriali fra nord centro e sud del paese.
Si impone inoltre, in qualche modo, anche da noi il modello puritano così caro agli americani. Il drogato deve fare mea culpa e riconoscere, nella comunità in cui va a rinchiudersi, l’autorità di un dio “superiore e amoroso” che lo guiderà fuori dalla dipendenza.
Il capo carismatico. Il modello delle comunità terapeutiche di questo tipo si fonda sull’idea che esista una vera e propria autorità razionale che deve essere esercitata progressivamente al fine di rendere autonome le persone. Un’idea che a pensarci bene pervade anche il discorso sulla scuola, sull’educazione più in generale.
Sette e altro
Fra i primi e più controversi modelli di questo tipo c’è quello di Charles Dederich e di Synanon. Fondata nel 1958 Synanon è la prima comunità residenziale negli Stati Uniti, ma i suoi membri vengono indicati presto come quelli di una setta vera e propria. Tuttavia, a lungo, rappresenterà la pietra angolare intorno a cui nasceranno diverse comunità, vere e proprie piccole società alternative, che reagiscono in modo “comunitario” alla crisi della società degli anni Settanta alla quale è attribuita l’origine della dipendenza.
Nascono però anche comunità autogestite, a Torino per esempio il gruppo Abele, che è fra le prime realtà in Italia a operare in strada: poiché la comunità terapeutica tradizionale funziona soltanto a partire dalla costatazione del fallimento individuale e della volontà di stabilire un nuovo percorso di vita, sul modello degli alcolisti anonimi, l’intervento in strada pare a molti completamente inutile se non controproducente.
Che senso ha salvare la vita a chi non vuole essere salvato. Così facendo, invece, si introduce una visione meno manichea e più pragmatica sulla dipendenza da sostanze che si affermerà soltanto molti anni dopo, e che possiamo semplificare con il concetto di riduzione del danno.
Ti aiuto a stare meglio, a stare bene, ad avere una vita dignitosa e in salute anche se non hai deciso, fino in fondo, di disintossicarti.
Nelle prime comunità prevale un’opzione anti farmaco abbastanza diffusa: il metadone è visto con sospetto e lo sarà a lungo. Achille Saletti, per anni a capo di Saman, ricorda l’assoluta improvvisazione, lo sforzo di tanti volontari senza alcuna preparazione e soprattutto senza alcuno strumento: «Le strutture terapeutiche erano mandate avanti in modo empirico, improvvisato. In comunità per esempio non veniva dato niente, né farmaci né altro, si curavano le crisi di astinenza con la camomilla».
Aldilà dei diversi modelli, fin dai primi anni Ottanta appare chiaro a chiunque abbia davvero a cuore il problema che, comunque, non esiste una ricetta buona per tutti e che nessuna Comunità terapeutica garantisce al 100 per cento da possibili “ricadute”.
Così a mano a mano inizia a imporsi l’idea, soprattutto a partire dai primi anni Duemila, quando lo spettro delle dipendenze si allarga e non riguarda più soltanto l’eroina, che occorre una visione “sartoriale” della terapia che prenda in considerazione il soggetto, la sostanza di cui abusa e il contesto in cui lo fa.
Un approccio sistemico che richiede una formazione raffinatissima che troppo spesso non è quella che i servizi pubblici (ma nemmeno i privati) mettono in campo.
Come aiutare
Questo accade anche perché, mano a mano che il problema droga è diventato più complesso, si è andato negli anni affermando un processo di unificazione dei servizi psichiatrici e per le dipendenze, tutto a discapito dei secondi. Un problema di non secondaria importanza in anni in cui le tipologie di abuso sono variate tantissimo.
Oggi, per dire, è la cocaina la bestia nera per definizione. Perché non esistono farmaci sostitutivi, perché è molto difficile da individuare come problema finché non vi si è dentro fino al collo.
Ma troppo spesso si continua a guardare la dipendenza da cocaina in modo anacronistico o assimilabile a quella da eroina. Ovviamente le persone che hanno bisogno di aiuto non sempre se ne rendono conto o sanno a chi rivolgersi né hanno gli strumenti culturali per agire in modo coerente con l’obiettivo di stare meglio.
Secondo uno studio recente sulle Comunità terapeutiche a cura di Maurizio Coletti e Leopoldo Grosso: «il numero delle comunità e degli ospiti accolti è in continua, leggera e costante diminuzione. Le strutture del privato sociale sono 821 tra residenziali, semiresidenziali e ambulatoriali. Nei Serd al 31 dicembre 2020 erano in carico 125.428 persone, di cui in comunità terapeutica 9.769. Confrontando diverse fonti, in comunità viene trattato il 6-7 per cento dell’utenza complessiva».
Questo significa che il resto dell’utenza passa dal Servizio sanitario nazionale, dai SerD. Eppure, secondo quanto scrive Anna Paola Lacatena, sociologa e studiosa del fenomeno, oggi «il nostro Paese resta la realtà con il maggior numero di strutture presenti sul proprio territorio (908 al 31 dicembre 2018, secondo il Centro Studi, Ricerca e Documentazione del Dipartimento per le Politiche del Personale del Ministero dell’Interno». Si va da comunità sperimentali che propongono un mese di pausa dalla sostanza, particolarmente utile se il problema è la cocaina.
Si prende il tempo per capire chi si ha di fronte, un tempo che i servizi spesso non hanno, o che non possono gestire al meglio visto che arrivano individui ai quali sono state prescritti farmaci dal medico del carcere, da quello dell’ospedale, e da quello del SerD.
Approccio sartoriale
Gli approcci sono molto diversi e variano, ovviamente, a seconda delle regioni e quindi degli investimenti pubblici (si passa dalle quattordici tipologie della Lombardia alle due della Calabria).
Le regioni virtuose sono quelle dove ci sono comunità specifiche per il policonsumo, per gli alcolisti, per coppie (troppo spesso il lato affettivo è stato negato in comunità), madri con figli, doppie diagnosi. Dove si lavora o ci si concentra sulla psicoterapia. Diurne o residenziali. Servizi che appoggiandosi sul terzo settore hanno integrato pubblico e privato soprattutto là dove esistono dipartimenti per le dipendenze. Gratuiti, aperti al trattamento farmacologico ove indicato, universalmente orientati a continuare la presa in carico negli ambulatori territoriali SerD, dopo la dimissione.
In questi luoghi si realizza, in qualche modo, quella visione “sartoriale”, su misura, necessaria in ogni storia di dipendenza.
Capita, infatti, spesso che venga inviata una persona in un contesto del tutto inappropriato alle sue esigenze (una donna giovane fra donne di mezza età) mettendo così in discussione i diritti stessi dell’individuo in difficoltà e l’efficacia dell’offerta terapeutica.
Secondo Riccardo De Facci, presidente del CNCA, associazione che dagli anni Ottanta unisce una serie di comunità terapeutiche, «alcune regioni investono moltissimo, ma in questo momento i servizi non sono all’altezza delle richieste, siamo in una fase in cui gli operatori che hanno messo in piedi i servizi stanno andando in pensione e c’è un ricambio enorme della cultura dei servizi che si rinnovano non sempre con le risorse adatte poiché non esiste una formazione adeguata e specifica all’università di medicina delle tossicodipendenze».
Di fronte a 150.000-200.000 persone dipendenti in modo patologico da sostanze, 20.000 vanno in comunità terapeutica, 90-100 000 vanno avanti con un farmaco sostitutivo da almeno 10 anni riuscendo a vivere in modo assolutamente funzionale alle loro necessità e aspettative.
Questa cronicità è molto più diffusa di quanto pensiamo ma la società (mezzi di informazione compresi) fatica a prenderla in considerazione per cui continuano a esistere soltanto due tipologie umane: quelli che si drogano e quelli che non si drogano.
E comunque dobbiamo domandarci cosa ci aspettiamo da una persona che inizia un percorso di cura? Negli anni Ottanta la risposta sarebbe stata una e una soltanto. La sua disintossicazione definitiva. Il successo. Ma il successo cosa è?
Chi ce la fa e chi no
Un terzo delle persone che usano sostanze ce la fanno da sole, magari cambiando città, innamorandosi. Un terzo vanno avanti, fra alti e bassi, con dipendenze decennali: dopo il servizio terapeutico trovano un equilibrio, magari aiutandosi con un po’ di alcol, ma ce la fanno. Poi ci sono quelli che non ce la fanno mai, che vivono tra ricadute continue, schiacciati da un desiderio molto più grande di loro, infelicità, condizioni di vita insopportabili.
La loro morte spesso è da considerare come un suicidio atteso. Sono i più fragili. Non sono marziani. Sono figli, amici, genitori, vicini di casa, il ragazzo che incontriamo al bar tutte le mattine, la madre di una compagna di scuola di nostra figlia.
A volte sono persone celebri, che magari hanno solo “sfortuna” e che senza overdose avrebbero continuato a consumare saltuariamente droghe pesanti come hanno sempre fatto. Quando è morto Libero Di Rienzo, il bravissimo attore romano, c’è stata una levata di scudi dei suoi amici affinché il suo nome non venisse associato in alcun modo al consumo di sostanze. Per vergogna. Ma vergogna di cosa?
Se di droghe si parlasse seriamente, e non a mezza voce, tra risatine e stupida (stupita) sorpresa, forse le persone smetterebbero di morire. Certo, non abbiamo alcuna certezza in tal senso, ma varrebbe comunque la pena provarci.
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