Dall’approccio fondato sul carcere e gli ospedali psichiatrici ai centri di riabilitazione: l’evoluzione incerta delle cure
- Negli Cinquanta e Sessanta l’approccio prevalente è quello di trattare il drogato come un criminale o un malato psichiatrico, la dipendenza è vista come un problema di debolezza psicologica o inclinazione a delinquere.
- Poi nascono i primi centri di riabilitazione, ma con molte contraddizioni: il drogato deve espiare la sua colpa, più che trovare le forze e gli strumenti per uscire da una situazione di cui ha perso il controllo.
- Negli anni Settanta e Ottanta si afferma l’idea che dalla droga bisogna uscire da soli, anche il metadone viene somministrato in dosi basse per timore che si sostituisca l’eroina con una “droga di stato”, ma così l’intervento risulta meno efficace.
Nel novembre del 1982, nove anni dopo il primo morto di overdose da eroina censito in Italia, esce, pubblicato dalla Nuova Italia Scientifica, un saggio dallo stranissimo titolo: Quei temerari sulle macchine volanti. Strano il titolo, perché non di un romanzo si tratta, bensì di un saggio, scritto da uno psichiatra molto noto all’opinione pubblica italiana per essere stato il primo a prendere sul serio il problema della cura dei “drogati”.
L’autore del libro è, infatti, Luigi Cancrini che, da ormai quindici anni, è impegnato in serie ricerche di taglio scientifico sulla dipendenza da oppioidi. Il suo primo studio risale al 1969, l’ha finanziato la Fondazione Agnelli e fa il punto sulla “tossicomania” in Italia.
Lo studio cerca di rispondere al quesito: chi usa le sostanze, perché le usa, quali sono le reazioni della famiglia, della società, cosa si può fare per affrontare un problema che appare in espansione anche se ancora non gravissimo.
Tredici anni dopo, a crisi da eroina conclamata, Cancrini sente la necessità di fare il punto e ricostruire la storia delle terapie messe in campo in Italia a partire da quel lontano 1969.
Si concentra sui diversi approcci psichiatrici evidenziando la miopia di chi ha sempre considerato la dipendenza da eroina come una patologia sociale come le altre, senza bisogno di cure specifiche.
Il suo racconto è parte di una vicenda troppo poco conosciuta che vale la pena iniziare a ricostruire. La storia dei vari approcci alla cura della tossicodipendenza. Oggi un tema di una attualità drammatica, anche se facciamo finta di no.
Una vicenda che parla dei legami fra psichiatria, dipendenza patologica, eroina, servizi pubblici e nascita di comunità private, ma anche di errori, ripensamenti, successi e un sistema di protezione che ha fatto sì che, per esempio, negli ultimi trent’anni non si verificasse da noi quella epidemia da oppioidi che uccide ormai 100.000 persone all’anno negli Stati Uniti e non è destinata ad arrestarsi. Allora partiamo dall’inizio. Dall’anno della prima ricerca di Luigi Cancrini, dal 1969.2
In galera per droga
Nel 1969 vige ancora in Italia la legge 1041 sugli stupefacenti, una legge promulgata nel1954 che, abolendo la distinzione fra spacciatore e consumatore, di fatto, ha aperto la strada al carcere o al manicomio per i tossicodipendenti.
Secondo la ricerca di Cancrini: «il 62 per cento del campione di tossicomani studiati è passato attraverso le cliniche di malattie mentali e nervose. La metà è stata dirottata verso gli ospedali psichiatrici o trasferita in case di cura private». Una testimonianza particolarmente emblematica è quella di un ragazzo di 17 anni che fa abuso di farmaci.
«Sono stato preso dalla polizia che mi stavo siringando. Dal pronto soccorso mi hanno fatto ricoverare alla neuro. Mi hanno legato a un letto, poi mi hanno portato al manicomio». Una decisione, quella del manicomio, che viene presa in accettazione, senza nessuna figura di supporto (assistenti sociali, medici).
D’altra parte, nella ricerca coordinata da Cancrini, si legge che i medici del Centro di igiene mentale, nel solo 1968, hanno eseguito 7.900 visite: non possono reggere da soli quella che a tutti gli effetti inizia comunque ad essere una questione nuova da affrontare.
Chi sono poi gli infermieri dei manicomi incaricati di occuparsi, fra gli altri, anche dei tossicodipendenti, lo sappiamo bene grazie alle inchieste di quegli anni sulla psichiatria e sull’istituzione manicomiale.
Evidentemente occorre fare qualcosa e presto. L’Italia è del tutto impreparata ad affrontare un fenomeno che sembra essere in espansione.
C’è da dire che negli anni Cinquanta, ma anche negli anni Sessanta, la “tossicomania” in Italia riguarda minoranze molto riconoscibili: la “morfinomania” è tipica degli adulti, normalmente di buona estrazione sociale; i barbiturici, seppur legali, vengono usati senza controllo medico (provocando sovente decessi) dalle donne, casalinghe, ragazze.
La cocaina è una droga di élite o della malavita, come abbiamo visto in una delle puntate precedenti di questa inchiesta. L’eroina, di fatto, non circola se non in ambienti ristrettissimi. La droga più diffusa è, senza dubbio, l’alcol che non conosce limitazioni di alcun tipo e nemmeno viene percepita come tale.
Poi, a partire dai tardi anni Sessanta, iniziano a diffondersi fra i giovani la cannabis e i suoi derivati. Individuati, secondo un modello proibizionista di matrice statunitense, come sostanze pericolose quanto l’eroina, suscitano immediato allarme: si susseguono servizi giornalistici, azioni repressive della polizia, che in pochi anni incarcera moltissimi piccoli spacciatori più che altro dipendenti dalle sostanze che vendono.
Ospedale psichiatrico
Ma la cronaca riporta anche alcuni casi celebri e drammatici come quello dell’attrice Carolyn Lobravico arrestata la notte fra il 5 e il 6 agosto 1970 nella sua villa in Costiera amalfitana per detenzione di sostanze stupefacenti (hashish).
La donna viene portata a Pozzuoli nell’ospedale psichiatrico giudiziario, lì rimane per 70 giorni, chiede di essere curata, sostiene di essere malata di epatite virale, dice di stare molto male. Viene legata al letto di contenzione, dove muore.
Una storia atroce e dimenticata che mette in luce, in questi primi anni Settanta, la necessità di un cambio di passo nella gestione di quello che appare essere diventato un problema, se non di ordine pubblico, senza dubbio di ordine sanitario.
Cancrini si batte affinché la cura della tossicodipendenza sia delegata a strutture pubbliche specialistiche e non ai manicomi e riesce a far passare nel Pci, l’idea della non punibilità della modica quantità che con tutti i limiti di questa definizione viene abbracciata anche da settori progressisti della Democrazia cristiana.
Insiste sulla depenalizzazione del consumo di droghe leggere perché da medico ha visto come punire i consumatori non serva a niente, anzi, chi fa un uso saltuario o ancora non problematico di sostanze, una volta portato in carcere diventa quasi senza eccezioni un soggetto dipendente.
Anche dalle sue ricerche prende forma la nuova legge sugli stupefacenti del 1975 che prevede la nascita di centri anti-droga che, come sempre accade in Italia, vedranno esiti assolutamente diversi a seconda dei diversi contesti regionali che si troveranno ad aprirli.
Questa diversità di applicazione delle norme, dell’interpretazione delle possibilità messe in campo dalla legge, porterà conseguenze ancora oggi visibili, come del resto in ogni ambito del sistema sanitario.
I primi centri
Intanto in diversi capoluoghi sono sorti, nei primi anni Settanta, alcuni centri dedicati alla “cura” delle tossicomanie, pubblici e privati.
A Torino c’è il Gruppo Abele: il gruppo fondato a metà degli anni Sessanta da don Luigi Ciotti, fa attività di volontariato e nel 1973, quindi molto presto, si rende conto dell’emergenza sostanze fra gli emarginati della città industriale, dove la politica è solo la fabbrica.
L’associazione apre a Torino il Centro-droga Molo 53, al quale le persone tossicodipendenti possono rivolgersi 24h/24. L’anno successivo nasce in provincia di Alessandria la prima comunità, la Cascina Abele. E due anni dopo, nel 1975 l’associaizone si mobilita con una tenda in piazza Solferino per sollecitare l’approvazione di una nuova legge sulle droghe.
A Milano nasce il CAD, Centro aiuto drogati, grazie al supporto del sindaco socialista Aldo Aniasi, per volontà di uno psichiatra, Alberto Madeddu. L’approccio del CAD anticpa alcune questioni che esploderanno negli anni a venire: bisogna che la cura avvenga dentro il contesto in cui la persona sviluppa la dipendenza senza, però, l’uso di terapie sostitutive.
Si sta, infatti, diffondendo anche in Italia il metadone e subito iniziano le polemiche sulla sua somministrazione: non si può combattere un veleno con un altro veleno, si dice. Il metadone è niente meno che una “droga di stato”.
Questa diffidenza, alimentata da ambienti cattolici ma anche dal Partito Radicale e da vasti settori di Medicina democratica, quindi del Pci, rallenterà moltissimo la piena applicazione delle terapie sostitutive in Italia, creando di fatto una situazione drammatica e insostenibile negli anni del primo boom dell’eroina, cioè i tardi anni Settanta.
Salta agli occhi quello che il farmacologo Ernesto De Bernardis definisce «il peccato originale della clinica italiana, che vuol far da sé anche se è ben a conoscenza di come fanno, e bene, gli altri. Chi ha inventato e applicato originariamente la terapia con metadone riportava di servirsi di un’ampia gamma di dosi (…) tra 50 e 180 mg».
In Italia, invece, si suggerisce di usare dosi notevolmente inferiori. Massimo 40 mg. Perché? Perché, secondo alcuni studi italiani, anche con dosi molto elevate non viene soppresso il “desiderio di droga”.
Dunque, mentre la legge del 1975 a cui abbiamo accennato, depenalizza l’uso di droghe leggere e mette a sistema la terapia con il metadone come cura della dipendenza da eroina, parallelamente la società italiana vede crescere una forte diffidenza verso ogni ipotesi di cura attraverso farmaci. Insomma quella da eroina è una malattia che non richiede medicine.
Uscirne da soli
Dalla “droga” bisogna uscire da soli e pure convinti. Il craving, il desiderio della sostanza, oggi riconosciuto come sintomo da prendere in considerazione nello studio delle dipendenze patologiche, è moralmente inaccettabile.
Così, nel febbraio del 1976, quando iniziano ad aprire i primi centri pubblici di sostegno ai tossicodipendenti, prende avvio la vera e proprio campagna mediatica contro il metadone, “veleno di stato”.
Uno dei primi centri pubblici nati a Roma, quello di via Merulana, è gestito dal dottor Massimo Barra, poi fondatore di Villa Maraini. Barra nel 1983 racconta questi inizi difficili:
«Mi ricordo che i primi tempi, in via Merulana, davamo il metadone in fiale, e i ragazzi le “sparavano”. Allora decidemmo di sciogliere le fiale nell’aranciata e l’amministratore dell’ufficio di igiene si sconvolse al concetto di pagare l’aranciata. Poi inventammo lo sciroppo con l’acqua di via Merulana, cioè scioglievamo le fiale da 11 mg. di un farmaco con un Kg. di zucchero in modo che lo sciroppo diventasse particolarmente denso. Quindi sono sorte tantissime difficoltà di ordine amministrativo e lo zucchero lo portavamo noi da casa, perché l’ufficio di igiene non poteva giustificare l’acquisto di esso per un centro antidroga. Attualmente, a Villa Maraini, avendo la disgrazia di dipendere da 4 enti pubblici, nel momento in cui parte un finanziamento questo non arriva. I fondi che sono stati stanziati nel 1979 non sono ancora arrivati. Nel momento in cui si ipotizza un’attività per un ragazzo, sarebbe opportuno, in quel momento, acquistare il materiale per poterlo facilitare. Invece per la realizzazione passano 6-7-8 mesi, e nel frattempo quel ragazzo se n’è andato, è morto, ha avuto tutti gli avvenimenti caratteristici della vita di un tossicomane».
Il girone dei dannati
Sono i centri stessi, spesso, a svolgere un’azione demoralizzatrice nei confronti dei loro assistiti. Scrive nel 1976 il giornalista Carlo Rivolta su Repubblica:
«Il centro del Comune così funziona solo al pomeriggio per la distribuzione del metadone e alla mattina per l’assistenza psicologica. Sono tornato di pomeriggio. Questa volta il girone era pieno di «dannati» che aspettavano il loro turno: a piccoli gruppi, sulle scale, sulle panche, sul tavolo dell’ingresso erano in ansia, in vista del momento in cui avrebbero avuto la loro dose. Una ragazzina bionda, capelli lunghi, un viso molto dolce e triste, mi ha raccontato la sua storia: «Vengo qui da due mesi. Appena arrivata mi hanno fatto compilare una scheda. C’è la mia condizione sociale. Mi hanno chiesto subito se volevo assistenza psichiatrica. Ho detto di no, da allora nessuno si è mai più interessato al mio stato psichico. E io invece sto male: prima avevo degli amici, quelli con cui mi bucavo, ora mi hanno isolata. Qui al Centro invece siamo tutti divisi, ci vergogniamo tutti un po’ di essere qui, e tra noi non c’è rapporto. Tanto meno abbiamo il minimo rapporto con gli assistenti sociali. Insomma, si viene qui, si prende il metadone, e si va via. Chi vuole tirarsi fuori dall’ero, in pratica lo fa da solo».
Malattia da eroina
Giovanni Berlinguer, medico, deputato del Pci, è fra le voci più autorevoli in questi anni a ribadire la necessità di inserire nella riforma del sistema sanitario nazionale, che sta prendendo forma, anche una specifica attenzione alle tossicodipendenze.
La medicina sociale deve guardare al mantenimento della salute e non solo alla cura della malattia. Per questo devono essere incoraggiati servizi di prossimità, cure domiciliari, assistenza psicologica. Con questo tipo di approccio va visto anche il problema delle tossicodipendenze.
Tuttavia larghi settori di Psichiatria democratica e di Medicina democratica non sono disponibili ad accettare una specifica attenzione verso la “malattia da eroina”. Il drogato, in qualche modo, se l’è cercata.
Scrive lo psichiatra Giovanni Jervis sulla rivista Quaderni piacentini: «Droga è, come la follia, l’immagine di ciò a cui ciascuno rinuncia, nel nome dell’ordine, della repressione, della produttività. Ma a differenza della follia l’essere drogati è sì essere alienati e pazzi, e anche pericolosi, ma per colpa». Eppure non basta agire politicamente in una dimensione collettiva per risolvere il problema.
Il socialismo da solo non guarisce dall’eroina. Lo scrive al «manifesto» Marco Lodi, un medico, che lamenta la mancanza di uno sguardo che miri, prima di tutto a mettere a centro dell’intervento di cura il benessere della persona “malata”.
Mentre l’eroina ha invaso tutte le piazze italiane e inizia a delinearsi all’orizzonte la soluzione già sperimentata in numerose circostanze negli Stati Uniti, la comunità terapeutica fondata da personalità carismatiche che presto colonizzeranno interamente l’immaginario italiano. Sullo sfondo gli anni Ottanta e lo spettro dell’Aids.
(continua).
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