«Il ministro dell’Economia lo incontro ogni giorno. È il mio vice segretario. I giornali dicono che ci litigo. Semmai ci litigo per motivi sportivi perché è juventino. Con Giorgetti e Meloni non pensavo potesse andare così bene per i primi undici mesi. Cosa che mi fa dire che lo sarà anche i prossimi dieci anni». Ieri ancora una volta Matteo Salvini ha dovuto smentire un litigio con il ministro dell’Economia. Chi lavora a stretto contatto con l’uomo del Mef ovviamente conferma: «Nessuno scazzo, i due lavorano gomito a gomito su tutti i dossier. Tutti i giorni». È vero che mercoledì scorso è toccato al suo vice gelare le fantasie di Ponte sullo Stretto del Capitano? No, replica secca, «e lo si vedrà nella manovra». Insomma, viene negato tutto. «Hanno attitudini politiche diverse, comunicazioni diverse» e se in effetti in altri tempi – viene concesso – non è stato così, adesso i due «lavorano in assoluta armonia».
Più che armonia, i due hanno trovato un loro equilibrio: tutte le volte che Giorgetti deve frenare l’irrefrenabile Salvini lo fa con il tono pacato e l’aria rassegnata di chi sa di essere condannato a fare questo mestiere. Da ministro di Mario Draghi essere considerato un infido draghiano, da ministro di Giorgia Meloni un infido meloniano. La premier lo ha voluto per questo al dicastero che più di tutti doveva ereditare il draghismo, praticare il realismo, e ancorare la Lega e il suo scalpitante capo. «Farò quello che serve», aveva risposto mentre era chiaro che Meloni l’avrebbe condannato al Mef con la delega speciale di contenere Salvini. Per dimostrare lealtà al segretario, fu l’ultimo a smettere di combattere per lui al Viminale. Ma era una battaglia persa in partenza: c’era il veto di Meloni.
Coppia di fatto
Dall’inizio di questa legislatura però Giorgia&Giorgetti sono una coppia (politica) di fatto. Lui le ha preparato il terreno per liquidare le richieste dei ministri sulla manovra, e quando lei mercoledì al tavolo di palazzo Chigi li ha umiliati («le vostre pretese valgono 80 miliardi») lui le ha fatto da spalla recitando il suo mantra sconfortato («o non sanno, o non si rendono conto»).
La fama di realista, passista e con la testa sulle spalle lo insegue fin dai tempi in cui faceva il sindaco di casa sua, Cazzago Brabbia, nel varesotto. Merce rara nell’allora Lega nord, poi nella Lega, che ha fatto di lui un uomo indispensabile e spendibile nelle istituzioni.
Ma era vaso di coccio fra Draghi e Salvini, e ora lo è nella nuova coppia di litiganti Meloni e Salvini. E la quintessenza della sua realpolitik consiste nell’essersi acconciato agli strattoni dell’una e dell’altro senza fantasie di fuga. C’è chi riferisce che di Salvini dice che «è quello che è», non un complimento. Ma Giorgetti non è uomo da frontali, né è mai stato così ingenuo da tramare di fargli le scarpe nel partito. Mai, neanche ai tempi del Papeete, dove mezzo gruppo dirigente sperava, senza muovere un dito, nell’avvicendamento fra i due. Non si è fatto avanti, anzi si è fatto precipitosamente indietro. Condannandosi alla solitudine dei numeri secondi: Giorgetti è il vice, ma senza ambizione di diventare il numero uno. Perché non ce n’è alcuna possibilità.
Ora qualche malalingua fa circolare che Giorgetti si sottopone a tanto stress in vista di un premio: essere nominato a tempo debito commissario europeo. Ma non è possibile, comunque vadano le europee Meloni non potrà mandare lassù un leghista alleato di Marine Le Pen, neanche il più moderato di tutti. Per questo rimarrà inchiodato al suo ministero, ai conti che non tornano, alla missione impossibile ma anche ineludibile di fare il ministro leghista sospettato di lavorare per il re di Prussia, cioè per la regina Giorgia.
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