È probabile, e forse auspicabile, che sulla questione Fitto commissario Ue, con o senza vicepresidenza esecutiva, una mediazione la si trovi. Tuttavia mi pare si stia esagerando. Di questo passo chi, tra i rappresentanti dei nostri partiti che hanno votato la fiducia a Ursula, solleva interrogativi e, giustamente, chiede rassicurazioni a Raffaele Fitto (e alla stessa Ursula von der Leyen), è quasi bollato come anti italiano.

Distinguerei un profilo soggettivo, minore, da un profilo oggettivo della questione, decisamente più importante. Il primo: è nota la biografia di Fitto. Di tradizione politica familiare democristiana, con una lunga militanza in FI, di recente approdato a FdI ed eletto nelle sue file. Può darsi che, in lui, l’originaria indole sopravviva sì da trasmettere l’idea di un politico moderato.

Ma già il passaggio al partito di Silvio Berlusconi configurava una qualche discontinuità. Mi spiego: noto che oggi, generosamente, si tende ad accreditare la tesi secondo la quale il Cavaliere fosse un moderato. Esorcizzando i molti elementi che, al contrario, ne facevano un campione di smoderatezza.

Infine, il transito di Fitto nel partito che affonda le sue radici nel Msi. Si converrà che trattasi di una parabola che non depone a favore di una oggettiva, inconfutabile posizione politica ispirata a un centrismo moderato.

Le ragioni di chi protesta

In breve, la collocazione politica del Nostro oggi lo connota come un politico di destra e di una destra non esattamente liberale ed europeista. È da supporre che lui stesso se ne renda conto e sappia di doverne rispondere.

Ma ciò che più conta, nella querelle che si è aperta sul commissario Ue designato dal governo Meloni, è la obiezione avanzata da liberali, socialisti e verdi europei. Obiezione di natura essenzialmente politica e, a mio avviso, motivata.

Per tre ragioni. La prima: il bis di von der Leyen porta il sigillo della maggioranza eminentemente politica che le ha dato fiducia con un voto al parlamento europeo. Con il voto contrario degli esponenti del partito di Meloni che lei ha voluto rivendicare motivandolo come atto di coerenza e chiarezza politica. Su queste basi come pretendere che la cosa non comporti conseguenze? Da notare: i primi a sollevare il problema sono stati i liberali, una formazione non di sinistra.

Secondo: le forze europeiste – perché questa è la discriminante decisiva nella Ue – in quanto orientate a un di più di integrazione politica, per cultura e per visione (si dice “comunitaria” e non “intergovernativa”) delle istituzioni europee, concepiscono la Commissione come l’embrione di un governo appunto politico, non come un organo meramente tecnico i cui membri siano spartiti in una stretta logica interstatuale.

Per inciso: chi aspira a una Ue più politica deve altresì prendere sul serio l’appartenenza alle famiglie politiche europee (per il Pd i socialisti e democratici che hanno posto la questione).

Terzo: tale visione, che, pur nelle differenze, accomuna le forze che hanno votato von der Leyen le dispone a considerare che cruciale per la legislatura europea testè aperta è un avanzamento della soggettività politica e della operatività della Ue, a cominciare dal superamento della regola paralizzante della un’unanimità delle deliberazioni. È perciò perfettamente giusto che esse pretendano garanzie dal rappresentante di un partito sovranista. La partita è troppo alta, non si possono fare sconti.

C’è insomma un principio di responsabilità conseguente alle posizioni che si sono assunte e ai patti che si sono stretti. Vale per Meloni, vale per von der Leyen. Al dunque, non reggono troppe parti in commedia tra loro contraddittorie.

© Riproduzione riservata