Iniziamo da una domanda scomoda, molto scomoda. Israele ha sempre ragione, qualunque cosa faccia? O anche questo paese, come tutti quelli che fanno parte dell’Onu, è vincolato al rispetto delle norme e delle convenzioni internazionali cui ha aderito, come la convenzione di Ginevra? Da molte parti si irride al richiamo al diritto internazionale nel conflitto in corso e lo stesso sentimento di sufficienza si applica anche ai lunghi decenni di occupazione israeliana del territorio palestinese (la Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza). La scienza politica insegna che nelle relazioni internazionali, così come a livello domestico, sono i rapporti di forza a contare, non certo le magne o piccole carte. Eppure, pezzi di carta come le costituzioni americane e francesi, e la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, base per il testo delle Nazioni unite del 1948, sono pietre miliari nel processo di civilizzazione. La clava più nodosa vince sempre, ma la impugna il barbaro. E la società moderna ha cercato di disarmare i barbari, di controllare la violenza bruta, non solo contrapponendo una forza superiore, di cui Hiroshima e Nagasaki, ma anche Dresda e Amburgo sono i simboli più terribili, ma invocando il rispetto di regole, convenzioni, principi. Qui, il processo di Norimberga è il riferimento obbligato, così come quello ad Adolf Eichmann, contro il quale venne usata l’arma del diritto in quanto «Israele aveva recepito nel suo ordinamento quegli stessi principii derivanti dal diritto internazionale che col Processo di Norimberga si erano tradotti in giurisprudenza», scrive Alberto Scigliano.
Ora, sia dello jus ad bellum, cioè delle ragioni per cui si fa una guerra, che dello jus in bello, cioè come si devono comportare i combattenti, si è sempre fatto strame, a seconda delle convenienze. Ma da qui ad affermare che il diritto non ha alcuna importanza ne passa. Proprio perché il processo di de-barbarizzazione dell’umanità si basa sul riconoscimento di regole comuni di convivenza, comprese quelle che si adottano in guerra.
Se invece vogliamo fare del diritto internazionale carta straccia, aboliamo l’Onu e tutte le organizzazioni internazionali, e torniamo alla legge della giungla. Meglio disporre di frame condivisi a livello globale e di strumenti cogenti per implementare le regole. Avere portato alla sbarra della Corte penale internazionale criminali come Milosevic, Karadzic e Mladic, quest’ultimo responsabile di aver trucidato ottomila civili bosniaci musulmani in cinque giorni (la strage del 7 ottobre, purtroppo, non è la più drammatica dei tempi recenti), costituisce un punto di merito del sistema Onu. Eppure, chi oggi ha invocato il rispetto del diritto e delle convenzioni internazionali, come il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, è stato ricoperto di insulti dalle destre intolleranti di ogni latitudine.
Detto ciò, la soluzione del conflitto israelo-palestinese non può che rimandare alla politica. Un percorso impervio, anche se ci limitiamo a guardare alla parte israeliana. I lunghi governi Netanyahu, premier dal 2009 a oggi con una brevissima interruzione, hanno avuto l’obiettivo di cancellare ogni autonomia palestinese, stringendo d’assedio Gaza (che riceve, contingentati, acqua, cibo ed elettricità da Israele), e colonizzando a piè sospinto la Cisgiordania. Buona parte della società israeliana è cosciente dei danni incalcolabili di queste scelte scellerate, e le denuncia. Lo dimostra Hagar Shezaf quando ha scritto, il 23 ottobre, su Haaretz - non su al Jazeera - che i coloni e l’esercito hanno inflitto ad alcuni palestinesi arrestati un trattamento inumano, fatto di «cigarette burns, beatings, attempted sexual assault».
Questo esempio indica che l’opinione pubblica israeliana riconosce per prima che il suo paese non ha sempre e comunque ragione, e che i diritti vanno rispettati ovunque e con chiunque. L’Occidente, e in prima fila gli amici di Israele, devono allora decidere se sostenere chi, da decenni, invoca una soluzione della questione palestinese con il riconoscimento della piena e totale indipendenza di quel popolo, o piuttosto chi punta a una totale annessione e sottomissione attraverso la confisca illegale e l’occupazione di terre, adottando un sistema di simil-apartheid. Questa è la scelta, tra la forza e il diritto.
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