- Per morti sul lavoro l’Italia occupa il secondo posto in Europa, dopo la Francia. 538 morti nei primi sei mesi del 2021. Il presidente del consiglio Mario Draghi ha detto che ciò è “inaccettabile” e che “bisogna” fare di più.
- Queste morti sono esemplari di uno squilibrio di potere nel mondo del lavoro e di una situazione di irregolarità e illegalità diffuse.
- Una decente politica democratica dovrebbe mettere al centro la battaglia contro un’ideologia falsamente meritocratica che ci vuole abituare a leggere gli squilibri di potere nel lavoro come esito di malasorte.
Con l’arrivo dell’autunno il lavoro tornerà ad essere al centro del dibattito politico e sindacale. Parlare di lavoro comporterà parlare anche dei diritti – per renderlo meno precario e meno rischioso. Lavoro associato a morte è un fatto intollerabile in una società che pone il rispetto della persona alla base del suo patto costituente.
Eppure, l’Italia reale è ancora lontana dall’Italia dei principi se è vero che per morti sul lavoro occupa il secondo posto in Europa, dopo la Francia. Quasi 550 nei primi sei mesi del 2021, un fatto “inaccettabile” ha detto Mario Draghi promettendo di fare di più.
Ma i fatti non si vedono ancora, per esempio l’aumento del personale ispettivo e soprattutto l’adozione di normative più severe, nonostante l’ostilità del presidente di Confindustria. Interessante la strategia deterrente della patente a punti proposta da Maurizio Landini: le imprese che hanno “troppi” infortuni (ma “troppi” quanti?) non possano partecipare a gare e continuare a produrre.
In questo contesto, anche i media potrebbero far meglio la propria parte, cessando di occuparsi delle morti come fossero disgrazie fatali da mettere in prima pagina. Morti che sono quasi sempre il segno di uno squilibrio di potere che pesa sull’organizzazione del lavoro e alimenta irregolarità e illegalità diffuse.
Sono dette “bianche” perché non imputabili a intenti criminosi volontari. Ma non v’è dubbio che evidenzino una irresponsabilità padronale sistemica. E questo ne fa una battaglia politica, sociale, culturale, non delegabile esclusivamente al sindacato o alla magistratura (che arriva comunque a misfatto compiuto). Quello delle morti sul lavoro non è solo un capitolo del diritto penale. Denuncia l’assenza di una politica sociale rigorosa e uno scarso impegno finanziario e organizzativo da parte dello Stato.
La politica è chiamata in causa direttamente, soprattutto quella che dice di collocarsi nel campo di centro sinistra, e che porta la responsabilità di aver accettato la deregolamentazione delle relazioni nel mondo del lavoro nel nome della competitività e della crescita.
L’ideologia del Jobs Act ha fatto scuola. Cambiare questa mentalità è una condizione per promuovere un’opinione pubblica non accondiscendente e uno Stato non assente. Dare centralità alla ripresa economica deve andare insieme all’attenzione civile e normativa al lavoro, per liberarlo dallo stigma della sofferenza meritata (nelle parole di Matteo Renzi e Matteo Salvini) e farne una condizione dignitosa di realizzazione personale.
Lavoro dignitoso e fiducia nelle proprie capacità stanno insieme e insieme possono decadere, come vediamo con le morti bianche e lo stillicidio dei licenziamenti. Una decente politica democratica dovrebbe contrastare l’ideologia falsamente meritocratica che ci vuole abituare a leggere gli squilibri di potere nel lavoro come esito della malasorte. Ma il rischio di “rompersi la schiena” restando schiacciati da una macchina utensile non è l’esito di una meritata sofferenza e neppure una disgrazia accidentale.
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