Sono state avanzate dure critiche a chi, a sinistra, ha tentennato sull’invito a regolare per legge la pratica della maternità surrogata di tipo solidale. Si tratta di una gestazione per altrə che evita lo sfruttamento della partoriente, dacché esclude qualsiasi compenso al di là delle spese inerenti alla gravidanza. Una maternità altruistica, cui la gestante potrebbe accedere solo con un reddito superiore a una certa soglia, per garantire l’assenza di condizioni di oggettivo ricatto e surrettizio scambio.
E, senza dubbio, una solidarietà ben regolata svigorisce la presa di quegli argomenti che s’appuntano sulla natura intollerabile di un mercato gestazionale che del lavoro tipicamente femminile fa merce a buon mercato. Perché quindi, a sinistra, ostinarsi a un’ambigua intesa con conservatori d’ogni sorta? La mia ipotesi, che giustifica la riottosità di alcune femministe, è che il dissenso non riguardi tanto lo sfruttamento in sé. Lo strappo più profondo, e di meno agevole rammendo, riguarda piuttosto il peculiare sfruttamento della donna in quanto donna. Una tradizione femminista, vitalissima in Italia, ha fatto perno sull’idea per cui la donna è da sempre inserita in una cultura forgiata dall’uomo a immagine dell’uomo.
Una cultura scientemente cieca alla donna come custode unica di un corredo linguistico e affettivo, che per chi nasce è il primo e insostituibile ingresso al mondo – prima cioè che le grinfie del patriarcato possano addestrarlə ai registri violenti del suo regime oppressivo. In questa chiave, si sostiene, il legame naturale tra una donna e chi questa mette al mondo deve considerarsi indissolubile. Indissolubile al punto tale che quel nesso vitale e radicatissimo non può venir reciso da alcun contratto, il quale pure aspiri a puntellare i diritti della gestante e a debitamente compensarla per il lavoro svolto. Non c’è legge, per quanto illuminata, che possa suturare il taglio da chi ci ha tenuto in grembo. E si badi: non è un mero fatto di genetica, bensì un legame fondativo in termini psichici e affettivi tra chi mette al mondo e chi vi viene.
Questo spiega un poco meglio perché queste autrici abbiano certo in odio lo sfruttamento, ma soprattutto insistano sulla privazione delle cure materne per chi nasce, che con dolo viene consegnatə ai committenti per fare strame del rapporto che già esiste con la puerpera. E spiega altresì perché molte di quelle autrici siano a favore della procreazione medicalmente assistita, in cui la donna si sottopone sì al trattamento, ma per farsi madre di chi ne nascerà.
Spiega infine perché costoro ritengano che le femministe pronte a sposare la causa della surrogazione dal volto umano facciano da inconsapevole testa d’ariete per il potere dei padri e dei padroni, che da sempre sottomettono le donne per via di negazione: negare il rapporto irripetibile che passa per il cordone ombelicale è negare la differenza che la donna incarna e ricacciarla così nella casa di bambola che l’uomo ha saputo farsi per suo piacere, oltreché guadagno. Non c’è dunque contratto che tenga, con i suoi fronzoli sulle modalità di separazione o sulle notule con cui la donna può revocare l’intenzione di separarsi dalla prole. Credo sia importante comprendere le ragioni profonde di un così nutrito allarme, che merita uno sforzo d’ermeneutica anche da parte di chi, come lo scrivente, è pienamente favorevole a una surrogazione di maternità ben regolata.
Forse, più come lezione su quei dissensi che non hanno via di sbocco e che non possono affidarsi ad argomenti in punto di diritto. Dissensi su questioni che in gergo tecnico si dicono attenere all’ontologia, ovvero al modo di concepire il mondo e la sua natura. Ahimè, la maternità surrogata è tra queste. E, sebbene chi vuole ammetterla abbia più d’una ragione, è comunque consigliabile non associare il dissenso di quelle femministe all’odierno ribollire di una vieta conservazione.
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