La gravidanza per altri, che qualcuno chiama utero in affitto, è un atto d’amore di una donna verso una coppia che non può avere figli? Oppure una forma di sfruttamento delle donne? Equivale alla vendita di un neonato? E deve essere considerata un reato? Per capire i termini della questione bisogna raccontare da dove è partito tutto e ricostruire una storia che non tutti conoscono
La gestazione per altri – che qualcuno chiama “utero in affitto” – divide la politica e l’opinione pubblica. Per capire perché in alcune nazioni sia ammessa e regolamentata e in altre no, bisogna raccontare la sua tormentata storia, che comincia quasi quarant’anni fa negli Usa, con il caso Baby M.
William e Elizabeth Stern erano una coppia felice. Sposati da anni e professionisti affermati – biochimico lui, medico pediatra lei – vivevano in una bella casa a Tenafly, in New Jersey, e avevano realizzato tutti i sogni della loro vita tranne uno: avrebbero tanto desiderato un figlio ma non potevano averne uno loro perché Elisabeth soffriva di sclerosi multipla, e non volevano rischiare di trasmettergli la malattia. Così, contattarono un centro per l’infertilità che tra i vari servizi offriva la gestazione surrogata. Il centro pubblicò alcune inserzioni sui giornali locali: “Cercasi madre surrogata disposta a partorire un figlio per altri, in cambio di una somma in denaro.”
Mary Beth Whitehead, una donna di 29 anni già madre di due bambini, moglie di un addetto alla nettezza urbana, rispose all’inserzione. Nel febbraio del 1985, il signor William Stern e Mary Beth Whitehead firmarono un contratto nel quale stava scritto che Mary Beth acconsentiva a essere fecondata col seme del signor William e a portare il figlio in grembo fino al parto, poi lei avrebbe consegnato il bambino al signor William. Rinunciava a tutti i suoi diritti di madre, cosicché la signora Elizabeth Stern avrebbe potuto adottare il bimbo.
Da parte sua, il signor William accettava di pagare alla signora Mary Beth una parcella di 10.000 dollari più tutte le spese mediche quando gli avrebbe consegnato il bimbo, dopo il concepimento. Infine di pagare una parcella di 7.500 dollari al centro per i suoi servizi.
Dopo una serie di inseminazioni artificiali andate a vuoto, finalmente Mary Beth rimase incinta, e nel marzo del 1986 diede alla luce una bimba a cui gli Stern diedero il nome di Melissa. Però, Mary Beth Whitehead si accorse che non riusciva a separarsi dalla bambina e decise di tenerla, e così fuggì in Florida portandola con sé, ma gli Stern la denunciarono. La polizia la rintracciò e riconsegnò la bimba agli Stern. Poco tempo dopo, presso la corte del New Jersey, iniziò il processo che doveva stabilire a chi dovesse essere affidata la custodia della piccola Melissa, che passò alla storia come il caso Baby M.
Il processo Baby M.
Il giudice dovette decidere se il contratto firmato tra gli Stern e Mary Beth fosse valido. A quell’epoca il New Jersey non aveva legge alcuna che permettesse o proibisse la maternità surrogata. Il giudice Harvey Sorkow stabilì che il contratto era sacro e inviolabile. Un accordo era un accordo, e quello era stato stipulato volontariamente tra due adulti che traevano entrambi un beneficio: William Stern otteneva un figlio a lui legato geneticamente, visto che era frutto di un suo spermatozoo che si era congiunto a un ovulo della donna, e Mary Beth una paga per il suo ovulo e per il suo lavoro di nove mesi. La madre del bambino non aveva il diritto di rompere il contratto solo perché aveva cambiato idea.
Il giudice dovette rispondere a tre obiezioni. La prima era questa: Il consenso all’accordo da parte di Mary Beth non era pienamente volontario ma viziato, perché quando aveva sottoscritto il contratto non era pienamente informata di quello a cui sarebbe andata incontro, cioè non sapeva che si sarebbe sentita così legata al bimbo che aveva partorito. Il giudice rispose: «Nessuna delle due parti aveva una posizione di negoziazione superiore all’altra. Ciascuna ha avuto quel che l’altra voleva. Si è stabilito un prezzo per il servizio che ciascuna delle due doveva offrire, e si è raggiunto un accordo».
La seconda obiezione era questa: la maternità surrogata equivale a vendere un bambino. Il giudice sentenziò: «Alla nascita il padre non ha comprato il bambino. È il suo figlio legittimo a lui geneticamente correlato. Non può comprare ciò che è già suo». Lui è il padre biologico, perciò il bambino era già suo. I 10.000 dollari erano serviti a pagare un servizio (la gravidanza) e non un prodotto (il bambino).
La terza obiezione era che il concepire un bambino a pagamento equivalesse allo sfruttamento di una donna, ma il giudice Sorkow sentenziò che pagare una donna per la sua gravidanza equivaleva a pagare un uomo per la sua donazione di sperma, e «se un uomo può offrire i suoi mezzi per procreare, allora una donna dovrebbe egualmente poter offrire i suoi».
Mary Beth Whitehead si oppose alla sentenza e fece ricorso alla Corte suprema del New Jersey. Con una decisione unanime, la Corte suprema ribaltò il verdetto del giudice Sorkow e stabilì che il contratto di surrogazione non era valido. Affidò la custodia di Baby M a William Stern poiché reputava che gli Stern potessero offrire maggiori garanzie per la crescita e l’educazione della piccola Melissa, ma restituì a Mary Beth Whitehead la potestà genitoriale, ovvero stabilì che lei era la madre biologica della bimba e in quanto tale aveva il diritto di visitarla a scadenze regolari.
La Corte suprema
Il capo della corte, il giudice Robert Wilentz, stabilì che il contratto di surrogazione non era realmente volontario e che si era trattato della vendita di un neonato. Innanzitutto, il consenso era viziato giacché Mary Beth aveva acconsentito a portare in grembo un bimbo e poi di consegnarlo ad altri alla nascita non in maniera realmente volontaria, perché al momento della firma non era pienamente informata: «Secondo il contratto, la madre naturale prende un impegno irrevocabile prima ancora di conoscere la forza del legame con il bambino. Non prende una decisione informata e totalmente volontaria perché chiaramente ogni decisione presa prima della nascita del bambino è, nel senso più importante del termine, non informata».
Solo dopo che il bambino nasce, la madre è in grado di compiere una scelta informata, e in più la sua decisione non è libera ma è forzata «dalla minaccia di un’azione legale e dall’incentivo del pagamento di 10.000 dollari», il che «la rende non totalmente volontaria». Il bisogno di denaro potrebbe spingere soprattutto donne povere a “scegliere” di diventare madri surrogate per i ricchi, piuttosto che il contrario.
Ma il giudice Wilentz scrisse nella sua sentenza che la ragione principale per annullare il contratto non era tanto il consenso viziato della madre surrogata ma qualcosa di più profondo: «Mettendo da parte la questione di quanto possa essere stato pressante il suo bisogno di denaro e quanto significativa possa essere stata la sua comprensione delle conseguenze, noi suggeriamo che il consenso di questa donna sia irrilevante. Ci sono, in una società civile, alcune cose che il denaro non può comprare».
Comprare o vendere un bambino – come accade nella gravidanza surrogata – sosteneva il giudice Wilentz, è sbagliato anche se è un atto volontario. «È la vendita di un bambino o quantomeno la vendita del diritto di una madre verso il proprio bambino, e l’unico fattore mitigante è il fatto che il compratore è il padre. Un intermediario, spinto dal profitto, promuove la vendita. Anche se è una certa forma di idealismo ad aver motivato una o entrambe le parti in causa, il motivo del profitto predomina, permea e in ultima analisi governa la transazione».
Quarant’anni dopo
Le questioni fondamentali che rendono la gravidanza surrogata un tema così spinoso e dibattuto erano già tutti esposti chiaramente nel caso Baby M. Da quel 1985 in cui nacque, Baby M – ovvero Melissa Stern – è diventata grande, si è laureata alla George Washington University, e poi si è specializzata al King’s College di Londra con una tesi che non a caso è molto critica verso la gestazione surrogata, dal titolo “Resuscitare Salomone: le questioni che al giorno d’oggi riguardano le conseguenze a lungo termine sui bambini frutto di gestazione surrogata”. Sono passati quasi quarant’anni, ma il dibattito sulla gravidanza surrogata continua aspro come allora.
Nel frattempo, la scienza ha fatto passi da gigante. Nel 1985, quando avvenne il caso Baby M, Mary Beth Whitehead – la madre surrogata – dovette sia donare l’ovulo, che venne fecondato con il seme del padre biologico, sia portare avanti la gravidanza, perciò la donna era anche la madre biologica del nascituro.
L’avvento della tecnica della fertilizzazione in vitro ha cambiato le cose. Con la fertilizzazione in vitro, il padre biologico dona il seme, poi una prima donna dona l’ovulo, che viene espiantato e messo in coltura in vitro, qui viene fecondato col seme del padre biologico, e quindi impiantato nell’utero di una seconda donna che porta avanti la gravidanza ma non è legata geneticamente al feto che porta in grembo.
Questo “spacchettamento” della catena dei fornitori ha fatto esplodere il mercato della maternità surrogata. Rimuovendo il legame tradizionale tra l’ovulo, l’utero e la madre. La gestazione surrogata ha ridotto i rischi legali ed emotivi che circondavano la gestazione surrogata tradizionale e ha permesso al mercato di esplodere. Sempre più coppie utilizzano la gestazione per altri per avere un figlio. Secondo voi ci sono delle cose che il denaro non può comprare? E la gravidanza surrogata è un atto d’amore o uno sfruttamento delle donne? Equivale alla vendita di un neonato? E dovrebbe essere considerata un reato?
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