Perché gli agricoltori non dovrebbero pagare una parte dei costi della transizione, come tutti noi? Peraltro, se questi costi non li pagano anche loro, dovranno pagarli o altri settori industriali, oppure cittadini e consumatori
Gli agricoltori che protestano vogliono essere protetti dalla concorrenza estera, dai prezzi imposti dalla grande distribuzione e dai disincentivi imposti alle attività che producono emissioni. La richiesta non è indebita, a prima vista. Nei sistemi di welfare state, la politica fa proprio questo: mette il cittadino indigente al riparo dal bisogno di cure che non può permettersi, protegge il lavoratore dalla possibilità di perdere il lavoro non per sua colpa, tutela (a volte e con difficoltà) il consumatore da speculazioni e dall’inflazione.
Queste protezioni si giustificano in tre modi. In primo luogo, disgrazie come malattie improvvise e gravi, licenziamento senza giusta causa e inflazione galoppante non sono frutto della scelta di chi le subisce. Non è come chi perde tutto al gioco o si riduce in fin di vita per gli stravizi. Queste disgrazie sono ingiustizie non meritate e il welfare state è la nostra maniera di fare giustizia.
In secondo luogo, quando queste disgrazie toccano molte persone, le loro conseguenze negative si accumulano esponenzialmente: malattie gravi non curate significano famiglie afflitte da lutti, angoscia sociale e così via, e lo stesso accade con la disoccupazione e l’inflazione. In terzo luogo, queste disgrazie non si possono risolvere senza l’intervento statale: la sanità privata non ha incentivi a curare chi non se lo può permettere, né il mercato riassorbe facilmente disoccupati non qualificati. E sulle difficoltà di frenare l’inflazione dovremmo avere idee chiare, in questi anni.
Il rischio d’impresa
Questi ragionamenti valgono anche per gli imprenditori agricoli? Non è chiaro. L’attività imprenditoriale è una scelta: nessuno ha chiesto al senatore Antonio Di Pietro di ritornare all’agricoltura, come ha raccontato in una recente intervista sulla Stampa. Vero è che anche agli imprenditori capitano disgrazie che non si meritano, come successo nella pandemia, e in questo caso l’aiuto è doveroso.
Ma che l’agricoltura sia un settore in crisi non è una novità. Chi sceglie ancora di fare l’agricoltore dovrebbe avere chiaro a che cosa va incontro. Salvare l’attività imprenditoriale di Di Pietro dev’essere una priorità sociale? Più di salvare i lavoratori sfruttati proprio nell’agricoltura, le vittime presenti e future del dissesto idro-geologico, i consumatori più indigenti? Interessarsi delle sorti della maggiioranza dei cittadini, presenti e futuri invece che privilegiare una minoranza agguerrita è ambientalismo ideologico? Gli agricoltori sono così diversi dai tassisti a Roma?
Ci potrebbero essere conseguenze sociali generali, naturalmente, di una crisi dell’agricoltura. Tuttavia, le conseguenze sociali non si possono valutare in isolamento. Perché gli agricoltori non dovrebbero pagare una parte dei costi della transizione, come tutti noi? Peraltro, se questi costi non li pagano anche loro, dovranno pagarli o altri settori industriali (se ne può parlare: ci sono sicuramente settori più privilegiati), oppure cittadini e consumatori. Ma non si capisce perché questi ultimi debbano pagare di più di quanto già faranno soffrendo gli effetti del peggioramento delle condizioni climatiche e delle necessità della transizione.
Gli agricoltori chiedono sussidi solo per loro, per continuare a contribuire a danni ambientali che soffriremo tutti, nel presente e nel futuro. Peraltro, l’impatto dell’agricoltura tradizionale in termini di emissioni è innegabile. In quanto gruppo sociale gli agricoltori hanno responsabilità storiche, come altri settori dell’industria, e dovrebbero farsene carico. Le loro emissioni sono più perdonabili di quelle dell’industria automobilistica?
Sussidiare gli innovatori
I sussidi potrebbero servire per fare funzionare meglio il settore agricolo, creando innovazione o abbassando i prezzi. Ma allora bisognerebbe sussidiare l’agricoltura più sostenibile e innovativa, non tutto il settore in maniera indiscriminata.
Non solo non ci sono ragioni a favore dei sussidi e delle esenzioni. Ce ne sono contro. Perché dovremmo aiutare un settore dell’economia italiana a fare concorrenza sleale ad altri imprenditori, o ad altre economie dell’Europa e del mondo? Perché dovremmo sussidiare un settore che non elimina le profonde ingiustizie derivanti dal caporalato? I sussidi non sono un male in sé, né il mercato un bene assoluto. Sono maniere differenti di distribuire risorse, alcune delle quali comuni. Ci vogliono ragioni valide per scegliere l’uno o l’altro modo. Le ragioni degli agricoltori italiani ed europei non sono convincenti: sono solo intimidazioni e lamentele di una lobby, neanche troppo rappresentativa.
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