- L’approvazione del disegno di legge sull’assegno unico e universale rappresenta un passo avanti fondamentale per le politiche familiari. Non vanno però taciute alcune questioni della legge che possono almeno in parte essere corrette nelle settimane che ci separano dalla data del 1° luglio.
- La prima questione è quella degli importi: la nuova legge mette solo tre miliardi di risorse aggiuntive per il 2021 e sei a partire dal 2022. Sono troppo pochi.
- La seconda questione riguarda l’equità fiscale di questa norma. Solo in Italia si è deciso di perseguire la progressività del sistema fiscale sia attraverso le aliquote Irpef che attraverso gli assegni familiari.
L’approvazione del disegno di legge sull’assegno unico e universale rappresenta un passo avanti fondamentale per le politiche familiari. Abbiamo sostituito un sistema bizantino e incomprensibile che lasciava scoperti milioni di minori con uno strumento unico, che sostituisce i diversi programmi precedenti, e universale, che copre in maniera coerente tutti i residenti fino al ventunesimo anno di età. Partendo da questa premessa del tutto positiva, non vanno però taciute alcune questioni della legge che possono almeno in parte essere corrette nelle settimane che ci separano dalla data del 1° luglio, data in cui la misura entrerà ufficialmente in vigore. Settimane nelle quali si scriveranno i decreti delegati.
Frugalità nei conti
La prima questione è quella degli importi: la nuova legge mette solo tre miliardi di risorse aggiuntive per il 2021 e sei a partire dal 2022. Sono troppo pochi, molto lontani dall’ammontare che Istat, Ufficio parlamentare di bilancio, e altri istituti di ricerca hanno stimato necessari per fare una buona legge: servono almeno dodici miliardi. Così invece la coperta è corta. Troppo corta per garantire i 250 euro per figlio di cui ha parlato lo stesso presidente Draghi e questo costringe a dei compromessi al ribasso deleteri per i fini che la legge stessa si prefigge.
Il primo compromesso riguarda la semplificazione dello strumento. Infatti i sei miliardi sostanzialmente servono a estendere l’assegno alle famiglie che non venivano toccate dagli strumenti preesistenti (principalmente incapienti e autonomi). Per moltissime famiglie invece ci sarà poca differenza tra prima e dopo e per alcune la differenza potrebbe essere persino negativa. Certo ci sarà una clausola di salvaguardia ma questo costringerà moltissime famiglie a ricorrere al commercialista per il calcolo dei benefici con il vecchio sistema bizantino per vedere se esso sia comunque conveniente rispetto al nuovo. Con tanti saluti alla presunta semplicità dell’assegno unico. Più risorse permetterebbero di rinunciare alla clausola di salvaguardia, sicuri del fatto che nessuno ci rimette. Il secondo compromesso concerne l’incentivazione della natalità che è un obiettivo che la stessa legge si pone. Se si crede che i trasferimenti economici davvero incentivino le nascite, come si può pensare che l’assegno unico abbia un impatto significativo se per la maggior parte delle famiglie la differenza tra il prima e il dopo sarà risibile?
Da dove viene poi tutta questa frugalità nei conti, nell’anno in cui abbiamo approvato scostamenti di bilancio per 185 miliardi di euro e abbiamo guadagnato potenzialmente l’accesso a quasi 200 miliardi di euro del fondo Next Generation Eu? Per fare un raffronto si pensi che la misura sul cashback da sola costa cinque miliardi e che il bonus di ottanta euro di Renzi comporta una spesa di dieci miliardi all’anno. Che proprio su una misura di incentivi alla natalità si debba risparmiare mostra la miopia della politica: se l’assegno unico dovesse avere successo e dovesse risollevare rapidamente il tasso di fertilità da 1,27 figli per donna, registrato in Italia nel 2020, all’1,57 che è la media europea, questo comporterebbe due milioni e mezzo di contribuenti in più tra 25 anni che pagherebbero Iva, Irpef e altre tasse ancora con grande sollievo del fisco italiano. Con una prospettiva di lungo periodo insomma, l’assegno è una misura che si ripaga ampiamente da sola.
Equità fiscale
La seconda questione riguarda l’equità fiscale di questa norma. Il disegno di legge infatti prescrive che l'ammontare dell'assegno sia modulato sulla base dell'indicatore della situazione economica equivalente (Isee) e quindi diminuisca al crescere del reddito dei genitori. Questo criterio era presente nella proposta originaria degli onorevoli Del Rio e Lepri ed è sopravvissuta nella stesura finale della legge nonostante l’avversione del Forum delle associazioni familiari, le argomentazioni portate da diversi istituti di ricerca e l’evidenza che in nessuno dei moltissimi paesi europei dove vige una misura simile all’assegno, esso sia legato al reddito del genitore.
Gli estensori della legge difendono il criterio in nome del principio di progressività previsto dal secondo comma dell’articolo 53 della costituzione. Ma l’articolo 53 andrebbe letto e applicato per intero. Esso infatti nel primo comma specifica che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e la capacità contributiva dipende indiscutibilmente anche dai carichi familiari. Invece ancora una volta si fa confusione tra il principio di equità verticale – quello per il quale due individui con capacità contributiva/carichi familiari identici ma redditi diversi devono pagare un ammontare diverso di tassa (ovviamente il più ricco deve pagare progressivamente di più) – e il principio di equità orizzontale che invece prevede che due individui che abbiano reddito uguale ma capacità contributiva diversa paghino un ammontare diverso (ovviamente quello con capacità contributiva più limitata per via dei carichi familiari deve pagare di meno). Per l’equità verticale lo strumento principale è costituito dalle aliquote progressive dell’imposta sui redditi. Per l’equità orizzontale in tutta Europa si fanno degli assegni di importo costante per ciascun figlio, perché ogni figlio diminuisce la capacità contributiva dei genitori, siano essi poveri oppure benestanti. Solo in Italia si è deciso di perseguire la progressività del sistema fiscale sia attraverso le aliquote Irpef che attraverso gli assegni familiari. Davvero questo appare un eccesso di zelo per un paese che sottrae alla tassazione progressiva quote importanti di reddito; si pensi ai redditi finanziari o immobiliari e ai regimi forfettari che sono tassati con aliquote fisse. Questo è lo stesso paese che consente ai Paperoni di tutto il mondo di trasferirsi in Italia e pagare un ammontare massimo di 100mila euro di tasse anche a fronte di redditi multi milionari. Ed è il paese dei vari bonus fiscali concessi generosamente ad esempio a chi acquista auto elettriche o ristruttura la propria abitazione e che quindi vanno a premiare chi già ha un elevata disponibilità di spesa. Insomma, in questo paese tolleriamo un sistema fiscale flat e quindi non progressivo quando i ricchi investono in borsa o affittano le proprietà, perché certo vogliamo incentivare il risparmio e l’emersione del nero; celebriamo le ingegnose misure regressive che permettono a Cristiano Ronaldo di giocare nel nostro campionato, perché vogliamo attirare persone che possono generare un volano economico; ci compiaciamo di un fisco che permette al nostro vicino di comperarsi la Tesla con 8mila euro di sconto perché naturalmente vogliamo incentivare la mobilità sostenibile. Ma poi dobbiamo applicare l’Isee agli assegni familiari perché il sistema fiscale deve essere progressivo. Ma l’assegno non dovrebbe servire a ristabilire l’equità orizzontale e a incentivare la natalità?
Ulteriori complicazioni
I problemi con l’Isee non finiscono qui. Esso complica notevolmente il calcolo dell’assegno, di fatto premia con assegni più alti chi, grazie all’evasione, ottiene un punteggio Isee più basso e, agganciando l’importo dell’assegno al reddito familiare cumulato, di fatto scoraggia con aliquote marginali più alte la propensione al lavoro del secondo percettore di reddito. Cosa significa? Nei fatti che quando uno dei due genitori (spesso la madre) deve decidere se andare a lavorare deve misurare i benefici del salario contro i costi della riduzione dell’assegno dovuti all’aumento dell’indicatore Isee e questo finisce con lo scoraggiare la già bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro. Insomma, l’agganciamento dell’assegno è un pasticcio tutto italiano, frutto di un compromesso politico che crea molti più problemi di quanti ne risolve.
Con la legge già approvata e i decreti delegati da scrivere, se da una parte ci dobbiamo rassegnare all’Isee, dall’altra possiamo ancora fare un tentativo per minimizzarne l’impatto negativo. Per fortuna infatti il disegno di legge è molto vago su come esso vada utilizzato. Si può quindi ancora scrivere una norma che preveda una parte cospicua dell’assegno che sia identica per tutti i figli indipendentemente dal reddito dei genitori e solo una parte, meno rilevante, legata all’Isee. Più alto è l’ammontare della parte fissa più ci avvicineremo a rendere concreta la semplice promessa fatta dal premier Draghi: circa 250 euro per ogni figlio. Naturalmente per fare questa buona legge servono più risorse di quelle messe fino a oggi sul piatto.
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