Passo a passo deperisce il livello di democrazia in Italia. Le libertà civili vengono erose a piccoli ma continui colpi di piccone. Dopo lo scandalo sollevato dalle norme contro i rave party, usando addirittura un decreto legge – di cui certamente ricorrevano i criteri di necessità e urgenza! – il governo Meloni è diventato più accorto.

Si è mosso con maggiore cautela per evitare reazioni forti da parte dell’opinione pubblica liberale (in senso proprio) Ma ha continuato imperterrito nel suo progetto di ridisegno dei limiti delle libertà civili. Quando il governo, e gli esponenti di Fratelli d’Italia in particolare, intervenivano a motivare le loro proposte, emergeva il tratto profondo della loro cultura politica, quella che vede la nazione e lo stato sopra il cittadino e suoi diritti.

Chi si proclama in primis difensore della nazione, e del profillo che le attribuisce, considera un semplice inciampo l’individuo con le sue esigenze e le sue prerogative. Naturale quindi che si vogliano spiare, perseguire e perseguitare i giornalisti liberi, mentre della fitta schiera di gazzettieri con la schiena curva non serve proprio occuparsi. Naturale che si vogliano imporre limiti alla manifestazione del pensiero e all’espressione di posizioni critiche nello spazio pubblico. Le misure tese a sanzionare il dissenso e le dimostrazioni di resistenza civile non-violenta riflettono la pulsione autoritaria e statolatrica di una cultura che ha le sue radici nel fascismo. Se per altri paesi si può parlare di democrazie illiberali, per l’Italia, visto il suo passato, il riferimento più corretto va a quella, ahinoi solida, corrente di pensiero che si è concretizzato negli anni trenta e i cui lasciti riemergono ora con nettezza.

Tra queste pulsioni autoritarie non manca l’intenzione di cambiare le regole del gioco. Ancora un volta si vuole mettere mano al sistema elettorale a colpi di maggioranza. Non ci sono impedimenti di legge ma è del tutto evidente che un minimo di decenza istituzionale dovrebbe far sì che le norme che regolano la rappresentanza dovrebbero essere modificate per consensus, e dopo un lungo confronto che coinvolga tutti senza far pesare sul piatto della bilancia la sola forza della maggioranza.

Ricordiamo che il maggior cambiamento elettorale a livello locale venne introdotto sulla spinta di una valanga di voti al referendum Segni del 1993 con il quale veniva sostanzialmente abolita la proporzionale. Poi, varie e diversificate maggioranze hanno interpolato quel sistema producendo sgorbi legislativi di rara bruttezza.

Ora, invece di metter mano con calma alla legge elettorale e allargare il perimetro del consenso per disporre finalmente di un sistema elettorale degno di una democrazia matura, la destra tenta il colpo di mano a livello locale sull’ elezione dei sindaci, il solo sistema razionale ed efficiente, contro il quale finora non si era mai levata alcuna critica. E invece gli alacri pseudo-costituzionalisti del governo vogliono eliminare il ballottaggio al secondo turno e dichiarare vincitore chi arriva al 40%. Fine quindi dello scontro diretto tra due proposte e tra due candidati sindaci: si passa ad un sistema maggioritario a turno unico con una soglia minima da superare.

La tenuta del sistema

Perché mai questo cambiamento? Perché la destra è minoritaria nel paese e sa che perde se le opposizioni si coalizzano – e a livello locale è molto più facile mettere d’accordo quella banda rissosa che va dal centro all’estrema sinistra. La regola standard, universale, della vittoria al 50.1% al secondo turno viene buttata alle ortiche disdegnandone il profondo senso democratico. Infatti, quando un candidato ottiene più della metà dei consensi, la sua legittimità a governare è più forte rispetto ad una elezione che non preveda il ballottaggio. Il sistema maggioritario uninominale, all’inglese – chi arriva prima in un collegio è eletto, punto e basta – consente di vincere anche con percentuali modeste, anche meno del 30%.

Ma affinché questa modalità di elezione non sollevi un problema di legittimazione, è necessaria una accettazione di lungo periodo non solo della procedura elettorale, ma anche delle regole generali del sistema . Si tratta, cioè, di non aver alcun remora sul sistema democratico nel suo complesso, come nel caso britannico.

In Italia non ci troviamo in questa condizione. Meglio quindi garantire l’elettore con il massimo del consenso; e il ballottaggio, fornendo un consenso superiore al 50%, aumenta il tasso di legittimazione dei rappresentanti. E se questo vale non solo vale a livello locale, a maggior ragione vale a livello nazionale. Il doppio turno con ballottaggio rafforza la legittimità degli eletti. Ne abbiamo un gran bisogno.

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