- Non si tratta di tutelare varie “minoranze” e di accomunare le donne a queste ma di riconoscere il carattere unitario di una cultura che ordina gerarchicamente le vite, inferiorizza le donne, stigmatizza chi non corrisponde alla norma eterosessuale.
- La sorpresa è che anche donne e uomini di sinistra abbiano promosso un appello per un testo che ridurrebbe «la libertà di espressione». Ma la libertà di opinione non ha nulla a che fare con incitare all’odio.
- Una legge contro le forme di violenza verso vite differenti dalla mia chiama in causa anche me: maschio, bianco, eterosessuale. Ho imparato che la misoginia dell’intimazione di non apparire una “femminuccia”, l’insulto contro il ragazzino etichettato come finocchio è un potente dispositivo di disciplinamento della socialità.
La proposta di Legge per la «prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità» è all’esame del Senato dopo l’approvazione della Camera. Ovviamente la proposta vede l’opposizione delle destre che ipocritamente si appellano alla libertà d’espressione.
Sorprese a sinistra
La prima sorpresa è che anche donne e uomini del centrosinistra abbiano promosso in questi giorni un appello per la sua modifica denunciando che ridurrebbe «pesantemente la libertà di espressione». Eppure la libertà di esprimere la propria opinione non ha nulla a che fare con incitare all’odio, stigmatizzare o discriminare persone per ciò che sono, per la loro origine, il loro orientamento sessuale, la loro religione. Il contrasto delle culture di odio e di negazione della dignità umana - come l’antisemitismo o il razzismo citati nell’appello - non riguarda solo la tutela delle “vittime”, non è questione privata su cui lo Stato interviene meramente a loro tutela. È questione che riguarda la qualità della nostra democrazia, delle nostre relazioni e della nostra libertà.
Per questo il cuore della critica opposta a questa legge, e cioè che la sua finalità sia «tutelare le persone lgbt» e che colpirebbe i diritti e gli interessi delle donne «relegandole a una minoranza» tra le altre, mi pare nasca da un equivoco. Questa obiezione non solo è intimamente contraddittoria perché rifiuta di considerarle una minoranza ma al tempo stesso le indica come una “categoria” con propri interessi specifici, ma travisa l’oggetto del contendere. Non si tratta di tutelare varie “minoranze” e di accomunare le donne a queste ma, al contrario, di riconoscere il carattere unitario di una cultura, di un immaginario che ordina gerarchicamente le vite, inferiorizza le donne, stigmatizza chi non corrisponde alla norma eterosessuale.
C’è un nesso tra misoginia e omofobia? O sono solo due forme di discriminazione e pregiudizio tra loro indipendenti? Il disprezzo e l’irrisione per la “checca” è verso un uomo “effemminato”, che ostenta i vizi che sanciscono l’inferiorità femminile: l’eccessiva sensibilità, la voce querula priva di autorità, l’emotività. L’omosessuale è posto nella condizione “degradante” della passività, di chi “subisce” la penetrazione che produce e conferma la complementarietà gerarchica tra uomini e donne.
Una legge contro le forme di violenza e discriminazione verso vite differenti dalla mia, chiama direttamente in causa anche me: maschio, bianco, eterosessuale, abile e produttivo. Mi riguarda non in termini astratti ma concreti: ho imparato su di me che la misoginia dell’intimazione a non piangere per non apparire una “femminuccia” nega la possibilità di ogni maschio di essere in relazione con le proprie emozioni, e così ho conosciuto più tardi che l’insulto contro il ragazzino etichettato come finocchio agisce non solo sulla sua esclusione, ma è un potente dispositivo di disciplinamento del mio modo di muovermi, della mia socialità. Lo spettro del ridicolo e della degenerazione mi tiene rigidamente dentro il recinto della virilità.
Per questo mi ha sorpreso e sinceramente addolorato trovare nell’appello per la modifica della legge “Zan” molte firme di persone che stimo, di donne con cui ho da anni una forte relazione politica e personale, con cui ho condiviso e condivido l’impegno contro la violenza maschile verso le donne e contro il sistema di dominio patriarcale.
La presunta propaganda di parte
Il dibattito sulla legge risente di conflitto tra prospettive politiche, teoriche ed esistenziali differenti che attraversa oggi i femminismi e il movimento lgbt+. Temi come la prostituzione o le tecnologie procreative vedono divisioni e punti di vista differenti che rimandano a modi diversi di intendere il rapporto tra corpo e identità, all’idea di libertà e soggettività. Ma questo testo di legge non parla di prostituzione e sovrapporre, come si fa nell’appello, la condanna dell’omofobia all’intenzione di «accreditare il commercio dei corpi, proponendone addirittura una normalizzazione, in particolare con la volontà di introdurre anche in Italia la pratica della maternità surrogata oggi vietata, oppure l’esaltazione della prostituzione come libera scelta lavorativa», non fa che inquinare questa discussione generando confusione. Così non si capisce perché l’approvazione di questa legge dovrebbe alimentare «la propaganda di parte, nelle scuole, a favore della maternità surrogata e l’esclusione di ogni visione plurale nei modelli educativi». Torna lo spettro della “dittatura del politicamente corretto” agitato dalle destre che contrastano, in nome della “libertà educante delle famiglie”, gli interventi educativi tesi a creare consapevolezza degli stereotipi di genere. Se siamo giunti a questi fraintendimenti è perché la logica di schieramento tra “campi” produce una polarizzazione e una semplificazione anziché alimentare una ricerca e un’interrogazione reciproca.
Due parole chiave di questa polarizzazione sono «sesso» e «genere» e l’appello afferma che «per la nostra Costituzione i diritti vengono riconosciuti in base al sesso e non al genere». In una lettera di critica alla legge inviata ai parlamentari, le donne di «Non una di meno libere» denunciano che «si sostituisce l’identità basata sul sesso con un’identità basata sul genere dichiarato. Attraverso “l’identità di genere” la realtà dei corpi – in particolare quella dei corpi femminili – viene dissolta».
Non si dovrebbe quindi “tutelare” l’identità di genere, ma l’identità sessuale. Non basta, dicono le promotrici dell’appello, una semplice «auto-dichiarazione per attestare un’identità», senza la sanzione di un intervento chirurgico. Un’altra petizione contro il disegno di legge contesta il riferimento all’identità di genere perché “è la premessa all’autodeterminazione senza vincoli nella scelta del genere a cui si intende appartenere, è l’essere donna a disposizione di tutti.”
Queste obiezioni, paradossalmente, sembrano basarsi proprio sull’idea che si intende contestare e cioè che l’identità di genere sia frutto di una scelta che prescinde dal corpo e che lo plasmi per corrispondere a una intenzione quando non a una “strategia”. Il riferimento al “genere dichiarato” fa pensare a un viaggiatore che, ad un passaggio doganale, non dichiara il reale contenuto del bagaglio. Una furbizia per contrabbandare un corpo in uno spazio che gli sarebbe precluso.
Quelle ironie su Luxuria
Rappresentare l’esperienza di transizione MtF (da maschile a femminile) come un “tentativo di invasione” da parte di “uomini” di spazi fisici e simbolici femminili dimentica il portato di violenze che comporta costringere queste persone in contesti che non corrispondono alla loro identità. Nel 2006 Elisabetta Gardini contestò che Vladimir Luxuria accedesse al bagno delle donne in parlamento. Molti ironizzarono su questa disputa sull’uso dei servizi della Camera dei Deputati. Più difficile ironizzare su Adriana, una trans brasiliana di 34 anni di Napoli in Italia da 17 anni, che nel 2017 venne esposta per mesi a molestie, minacce e umiliazioni nel reparto maschile del Centro di Identificazione ed Espulsione di Restinco. Ancor più difficile diffidare delle intenzioni della donna trans di 33 anni che si è suicidata dopo essere stata rinchiusa nel 2018 nel reparto maschile del carcere di Udine. Quello che mi colpisce e ferisce è la diffusa tendenza, in nome di una contrapposizione teorica, a rimuovere la capacità di ascolto, di empatia, di riconoscimento delle esperienze di vita delle persone e delle diverse soggettività segnate da oppressione, stigma, discriminazione e soggezione. Ma in nome di un conflitto legittimo sul tema delle forme di riconoscimento della transizione di genere si fa soprattutto una grave confusione con l’oggetto della legge. Non si tratta di discutere come debba essere considerata una persona che abbia intrapreso una transizione di genere. La domanda è un’altra: la discriminazione, lo stigma e la violenza colpiscono solo le persone che hanno fatto un intervento chirurgico o anche quelle che hanno un’espressione della propria identità diversa dal sesso indicato sul loro documento? Vogliamo una legge che contrasti solo discriminazioni dovute al sesso o consideriamo necessario contrastare anche la violenza e le discriminazioni subite da una persona transgender?
Le reazioni che emergono in questa polemica mi paiono rivelatrici di un contesto più generale in cui ogni soggettività si percepisce e rappresenta “accerchiata” e insidiata dalle alterità, che non percepisca lo spazio pubblico come luogo di espressione e relazione, ma come fonte di minaccia in cui agiscono strategie di invasione del proprio spazio identitario.
Riconoscere soggettività
Perché il fatto che una persona trans scelga di rappresentarsi e di pensarsi come donna dovrebbe togliere qualcosa a una donna? Allo stesso modo perché nominare le donne come soggettività politica dovrebbe negare realtà e titolarità politica alla lotta di persone che non si riconoscono nella rappresentazione binaria uomo/donna?
Perché riconoscere l’esistenza di donne sottoposte a sfruttamento nel mercato della prostituzione dovrebbe impedire di riconoscere le rivendicazioni di donne che scelgono questa attività consapevolmente e viceversa? È possibile combattere lo sfruttamento della prostituzione, difendere i diritti delle persone che si prostituiscono e produrre una critica dell’immaginario sessuale e delle relazioni tra i sessi che alimentano la prostituzione?
Mi colpisce il timore che riconoscimento di una soggettività produca la dissoluzione di un’altra e si sostituisca ad essa. Una delle cose che ho imparato dal femminismo è riconoscere che siamo tutti in relazione e che è impossibile pensare la mia libertà senza o contro quella dell’altra. E in fondo anche la storia del movimento operaio aveva fatto leva su un soggetto, la classe operaia, che liberando se stessa libera tutti. Contrapporre tra loro diritti, esperienze, vite e domande di libertà, peraltro oppresse e negate da un comune sistema di dominio, rappresenta un grave arretramento culturale. Torniamo a discutere senza steccati e a costruire una politica capace di pensare la libertà di tutti e tutte.
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