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«Ho nostalgia di un tempo che non ho conosciuto», ha ammesso Elly Schlein ad Alzo Cazzullo del Corriere della sera.
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Come si fa a essere custodi di una tradizione a cui non si appartiene ma anche completamente e radicalmente nuovi?
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Schlein sta cercando una risposta, ma l’ancoraggio alla storia post-comunista le garantisce applausi e voti tra i pensionati militanti di Testaccio, ma rappresenta anche un limite perché la costringe a parole d’ordine e priorità che hanno poco di originale
Elly Schlein è un enigma: rappresenta il futuro del Partito democratico, della sinistra almeno in Italia, o il suo limite?
La candidata alle primarie del Pd è l’alternativa necessaria alla leadership femminile di Giorgia Meloni o la sua migliore garanzia di sopravvivenza?
Sono domande che si fanno in molti in questi giorni che precedono le primarie aperte del 26 febbraio, quando simpatizzanti, elettori, e passanti potranno votare per il segretario del Partito democratico.
Stefano Bonaccini, il favorito, è un oggetto politico ben riconoscibile, amministratore locale di una regione con la fama (talvolta esagerata) di essere ben amministrata, l’Emilia-Romagna, che rappresenta sia la continuità con il potere rosso post-comunista sia l’eredità di quella stagione riformista breve, intensa e traumatica che ha ancora l’etichetta poco lusinghiera di “renzismo”. Ma Elly Schlein cos’è esattamente?
La campagna per le primarie, ancor più che quella per le elezioni regionali e politiche, ha una dimensione novecentesca, antica, non si può combattere soltanto nei talk show, bisogna prendere gli elettori uno per uno perché i numeri sono più piccoli, il sottoinsieme di quelli da convincere molto più definito.
Elly live
Dunque, ascoltare Elly Schlein nella piazzetta del quartiere Testaccio a Roma – enclave di giornalisti, lettori di giornali, elettori di centrosinistra, intellettuali – può risultare molto più informativo che sentirla distrattamente mentre ripete concetti condensati in battute da talk in tv o li dilata all’inverosimile nei tempi concessi dalla comunicazione web (due ore e 17 minuti con Alessandro Masala di Breaking Italy, il Bruno Vespa dei ventenni che non hanno la tv).
“Abbiamo guardato così tanto al centro che abbiamo perso i nostri”, dice Elly Schlein, che rivendica di essere lei la sinistra, mentre il suo sfidante Bonaccini si presenta soltanto come affidabile, trasversale, efficace.
«Amministrare non è una linea politica», è la frase affilata che Schlein ha scelto per infilzare l’ex collega in Emilia-Romagna, lui presidente e lei vice fino alle politiche del 25 settembre.
Eppure, in quel «i nostri» c’è tutta l’ambiguità di Schlein, ciò che la rende difficile da decodificare, la sua forza e il suo limite.
Nella piazza a pochi metri dalla casa del segretario uscente Enrico Letta, Elly Schlein porta una sinistra che si sente non più rappresentata dalla leadership del partito: sul palco sale Livia Turco, 68 anni, che si produce in un comizio perfetto con toni, pause, energia e linguaggio da anni Settanta, manca solo Bella Ciao alla fine.
Però poi ci sono anche il deputato Pd Alessandro Zan dell’omonima legge mai approvata e l’attore e attivista LGBTQ Pietro Turano – l’oratore più contemporaneo per stile e toni, pareva lui il politico del gruppo – e Victoria Oluboyo, consigliera comunale a Parma, 29 anni, “transfemministra intersezionale” nella sua pagina Instagram, e pochi nella piazza di Testaccio saprebbero spiegare che cosa significa.
Schlein porta sul placo e nel pubblico la Cgil, gli studenti che denunciano l’aggressione fascista di Firenze, l’ex segretario Nicola Zingaretti, i dirigenti Pd che scommettono su di lei, dal coordinatore della sua campagna Francesco Boccia a Marco Furfaro a Rossella Muroni e Laura Boldrini.
Schlein come il ritorno del partito a sinistra, alla sua storia di cui essere “orgogliosi”, come ricorda Livia Turco. E già questo è il primo paradosso, perché quella storia è la storia di molti che puntano su Elly Schlein ma non è la storia di Elly Schlein, che in politica ci è entrata con la campagna OccupyPd, dopo che una parte del partito che oggi la sostiene aveva colpito alle spalle Romano Prodi nella corsa al Quirinale.
Nostalgie immaginate
Nel Pd entra, prima di uscirne, con il gruppo di Pippo Civati, che era un po’ il gemello buono di Matteo Renzi, quello che voleva cambiare senza rottamare, che pensava di spingere il partito verso l’ambientalismo e l’Europa mentre ha prevalso poi la spinta renziana verso Confindustria e l’Arabia saudita.
Il paradossi di queste primarie è che la storia che Schlein vuole salvare, o alla quale vuole tornare, è quella di Stefano Bonaccini, il suo sfidante.
Uno che è cresciuto tra Campogalliano e le feste dell’Unità, che ha partecipato all’esperimento del socialismo realizzato in un solo paese, cioè l’Emilia-Romagna, nella fase in cui era una regione a partito unico (e comunista) dedita alla crescita e al benessere condiviso, altro che la Cina di Xi Jinping.
Poi, certo, Bonaccini nel 2013 taglia le radici post-comuniste, lascia Pier Luigi Bersani e si converte a Matteo Renzi prima e a dolcevita, occhiali e risvoltini poi per vincere le regionali 2019, col risultato che adesso la sua caratura “territoriale” è scambiata per una inclinazione verso destra che è incompatibile con l’idea emiliana della politica (non c’è davvero la destra in Emilia, almeno nel potere, tra gli elettori ormai sì).
Insomma, Schlein vuole riportare il Pd alla sua identità originaria che è quella tradita da Bonaccini, il quale invece si presenta come post-ideologico sotto la chiave del “territorio”, perché convinto che al Pd non sia rimasto altro messaggio da dare agli elettori che quello di promettere una buona amministrazione, in perfetta continuità con l’ultimo decennio di governo nazionale – sempre e comunque, con ogni alleato possibile tranne Fratelli d’Italia – che ha sancito la mutazione in una sorta di partito-stato che presidia tutte le istituzioni, dal Quirinale in giù.
Schlein ha capito che c’era uno spazio a sinistra di Bonaccini e l’ha occupato, anche se tutta la sua identità, la sua stessa fisicità e la sua biografia non si inseriscono in quella nicchia.
Il fascino che esercita su molti, soprattutto giovani, elettori ed elettrici si deve proprio alla sua completa estraneità alla polverosa tradizione di sezioni popolate soltanto da pensionati e anche alle ritualità di una militanza di partito che seleziona e riproduce mini-dirigenti sempre uguali a quelli del giro precedente (lo studente milanese Carlo Fossati, sul palco di Testaccio, parlava esattamente come ogni altro dirigente della sinistra giovanile dai tempi di Massimo D’Alema in poi: stesse pause, stesso sguardo accigliato, stessa oratoria).
«Ho nostalgia di un tempo che non ho conosciuto», ha ammesso Elly Schlein ad Alzo Cazzullo del Corriere della sera. Come si fa a essere custodi di una tradizione a cui non si appartiene ma anche completamente e radicalmente nuovi?
Schlein sta cercando una risposta, ma l’ancoraggio alla storia post-comunista le garantisce applausi e voti tra i pensionati militanti di Testaccio, ma rappresenta anche un limite perché la costringe a parole d’ordine e priorità che hanno poco di originale.
Radicale a metà
Il volantino che lo staff di Schlein distribuisce in piazza riassume le priorità: lotta al lavoro povero, abolire gli stage extracurriculare gratuiti, salario minimo, congedo paritario di tre mesi, rider trattati come lavoratori dipendenti.
Un po’ di ambiente, senza troppi dettagli ma con tutte le parole chiave giuste (comunità energetiche, economia circolare, stop al consumo di suolo) e poi sanità pubblica, scuola pubblica non all’autonomia differenziata (che la regione Emilia-Romagna a guida Bonaccini ha chiesto, assieme a Veneto e Lombardia) e poi diritti, Ius soli, abolizione legge Bossi-Fini sugli ingressi degli immigrati, matrimonio egualitario e anche lo stop ai finanziamenti alla guardia costiera libica che ferma le partenze e rinchiude i migranti nei lager.
Il grado di elaborazione teorica dietro ognuno di questi punti non è sempre chiarissimo, Elly Schlein non va nella direzione della radicalità che è propria dei nuovi movimenti ambientalisti come Fridays for Future o Ultima generazione, la sua spinta redistributiva si confronta con la consapevolezza che gli elettori rimasti al Pd sono benestanti e anziani (vuole una tassa di successione più alta ma pur sempre con franchigia a 500mila euro).
Le utopie – tipo lavorare meno a parità di salario – sembrano uscite più dal programma dei Cinque stelle che da un lavoro originale di sintesi.
Ma a differenza di Bonaccini, Schlein sembra voler superare l’approccio trasversale della vocazione maggioritaria che invece il presidente dell’Emilia-Romagna difende. Bonaccini vuole tenere insieme gli interessi di tutti, da emiliano che amministra in modo consensuale e pragmatico, quindi promette di rafforzare le tutele del lavoro dipendente ma anche aiutare le partite Iva, tagliare il cuneo fiscale come chiedono le imprese, favorire la transizione ecologica, certo, ma con la consapevolezza che ci sono i distretti dell’automotive da preservare, non all’uso del nucleare ma sì alla ricerca in materia, e così via.
Vocazione minoritaria
A semplificare un po’, se Bonaccini insiste su una vocazione maggioritaria, Schlein interpreta quella minoritaria che non è automaticamente sinonimo di sconfitta visto che il Pd da solo o con gli alleati maggioranza non lo è mai diventato e mai lo diventerà.
Se guardiamo il Comune di Roma, Alessio D’Amato ha preso alle ultime regionali oltre 200.000 voti meno di Nicola Zingaretti nel 2018.
Bonaccini ha vinto nel 2014 con poco più di 600mila voti, in un’elezione semi-deserta con l’affluenza al 37,7 per cento, ed è stato rinconfermato con 1,2 milioni nel 2020 grazie al sostegno, tra gli altri, della lista di Elly Schlein e del movimento delle Sardine per fermare l’assedio della Lega in una regione diventata incredibilmente contendibile.
Ha più senso inseguire gli elettori moderati o mobilitare i propri delusi?
Anche a vedere questi dati sembra non esserci storia, la strategia più promettente (e vincente) è quella di recuperare la sinistra. Gli esperimenti centristi del Terzo polo di Carlo Calenda si stanno già sgonfiando.
Davvero maggioritario, il Pd, non lo sarà mai, rimane maggioranza giusto nelle sue roccaforti storiche, nei centri cittadini, ma non riesce neppure più a esserlo ai collegi uninominali, che dopo il taglio dei parlamentari sono diventati troppo grandi e così nella Modena di Bonaccini ha perso il candidato paracadutato (in modo che poi si è rivelato irresponsabile) Aboubakar Soumahoro.
Per avere voti nei distretti ceramici o nelle industrie dell’appennino emiliano, Bonaccini lo sa bene, le bandiere identitarie non funzionano mai, serve un approccio pragmatico quasi-leghista. Ma quando gli elettori devono scegliere tra la destra originale e l’imitazione, spesso preferiscono l’originale (vedi elezioni lombarde rivinte da Attilio Fontana, nonostante Letizia Moratti in corsa).
L’alternativa è appunto la vocazione minoritaria, che può essere un limite, ma anche la via verso una vittoria fatta dalla somma di istanze non rappresentate, di sensibilità che il Pd ossessionato dal centro ha sacrificato nel tentativo di conquistare un elettore mediano sempre sfuggente e che oggi vota Giorgia Meloni.
Questione identitaria
Quando Schlein non si appiattisce sulla nostalgia per il passato altrui o sulle idee laburiste nate già vecchie di altri emergenti del partito (Matteo Lepore, sindaco di Bologna, che vuole il “Partito del lavoro”, stessa sigla del Pdl berlusconiano di un decennio fa), la 38 enne nata a Lugano dimostra di avere ben chiaro che la sua stessa biografia la proietta a essere l’interprete di una sinistra orgogliosamente minoritaria e non consensuale.
Che quando vince, se vince, lo fa rivendicando la specificità invece che con la logica centrista del meno peggio o del minimo comune denominatore.
Come Barack Obama, nel 2008, non sottolineava mai la sua evidente unicità di essere – potenzialmente – il primo presidente nero, così Elly Schlein non esplicita alcuna caratteristica biografica se non quella di essere donna, già resa accettabile dalla leadership di Giorgia Meloni dall’altra parte.
Ma qua e là le sue differenze emergono sempre, appena si sfiora il dato biografico: famiglia ebrea, attitudine cosmopolita contrapposta al radicamento territoriale di Bonaccini e di quel che resta del Pd, e poi l’uscita dagli schemi di genere e ruoli.
Elly Schlein è certo donna, ma non è madre, come invece rivendica sempre Giorgia Meloni, ha una compagna, che però non ostenta (“non è un personaggio pubblico e non lo vuole diventare”) e non rende parte della sua narrazione.
Anche se, inevitabilmente, per il Pd sarebbe una tripla rivoluzione avere una segretaria donna, giovane e con una partner dello stesso sesso (e discreta), invece Bonaccini, per genere, età e scelte di vita e messaggi d’amore via Instagram alla moglie rispetta appieno il canone.
Per i dirigenti del Pd le primarie sono un complesso esercizio di partecipazione controllata, dove la sfida più difficile è fare in modo che gli elettori non turbino equilibri di potere stabiliti tra correnti e singoli dirigenti.
Ma per i tanti o pochi che domenica andranno ai gazebo, più probabilmente, la sfida sarà tra due biografie, tra la giovane donna fluida, entusiasta, con giaccone e scarpe da ginnastica, contro il solido uomo di mezza età, eterosessuale, sposato, con dolcevita e occhiali a goccia.
Molte parole chiave delle mozioni congressuali – ammesso che qualcuno le legga – sono le stesse, ma questa volta le persone contano sicuramente più delle proposte di politica economica o di riforma della legge elettorale.
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