La missione in Libano è nata in un'altra epoca, nel 2006, con un governo più fragile ma più autorevole. Non bastano le parole del ministro Antonio Tajani per proteggere i nostri militari, ma neppure un rigurgito nazionalista. Prima gli italiani non vuol dire che saranno i primi ad andarsene, senza accordo nelle Nazioni Unite. Su come interpretare lo scenario, Meloni si gioca un pezzo di attendibilità internazionale, a venti giorni dal voto americano
Il governo di Giorgia Meloni si trova pericolosamente sulla Linea Blu, dopo gli attacchi di Israele alla missione delle Nazioni Unite Unifil in Libano dove sono impegnati 1200 soldati italiani. Dopo quasi tre anni di guerra in Ucraina e un anno di morte e distruzione a Gaza, su cui il governo ha provato a ritagliarsi uno spazio di manovra politica ma senza un impegno militare diretto, per la prima volta a rischiare sono gli italiani sul terreno, chiusi nei bunker.
Il dilemma diventa quello di sempre: restare o andarsene? Ai primi colpi israeliani la reazione ufficiale è stata furente ed è culminata con la denuncia del ministro della Difesa Guido Crosetto in conferenza stampa: «Gli atti ostili compiuti e reiterati dalle forze israeliane potrebbero costituire crimini di guerra». Se non dissonanti, sono certamente toni più alti di quelli utilizzati della premier Meloni per condannare, ieri hanno incassato l'apprezzamento di Yousef Salman, presidente della comunità palestinese di Roma durante la manifestazione per Gaza: «Però avremmo voluto sentire queste dichiarazioni anche per la morte di migliaia di palestinesi, bambini e donne».
Ma soprattutto la giustificata ira del ministro Crosetto non c'entra il punto: sotto l'attacco israeliano non c'è solo l'Italia, ma il mondo intero, le Nazioni Unite, e con loro una concezione del mondo, un'idea di relazioni internazionali multipolari che erano il presupposto con cui partì quella missione nel 2006. Dopo la conferenza di pace sul Libano organizzata a Roma dal governo Prodi 2, ministro degli Esteri Massimo D'Alema, ministro della Difesa Arturo Parisi, che salirono a bordo della portaerei Garibaldi a inaugurare la parte italiana della missione.
Era un governo fragile, dai numeri precari in Parlamento, sulla portaerei in partenza da Brindisi quella mattina di fine agosto, accanto alla presidente della commissione Difesa della Camera Roberta Pinotti (destinata a diventare la prima donna ministra responsabile del dicastero delle Forze Armate) c'era l'omologo del Senato Sergio De Gregorio, eletto nel centrosinistra come dipietrista ma eletto presidente di commissione con i voti del centrodestra.
Da lì a poco sarebbe stato al centro di una compravendita di senatori, con coda giudiziaria, al ritorno fu avvistato in un ristorante del centro con il direttore del Sismi dell'epoca Nicolò Pollari, ai suoi ultimi mesi alla guida del servizio di intelligence, prima di essere coinvolto in un'indagine per possesso abusivo di informazioni riservate
Quel governo di centrosinistra era fragile politicamente e sotto il tiro di manovre torbide reali e non immaginarie, ma sapeva come muoversi e rivendicare un ruolo in un quadro internazionale che puntava a contenere anche le crisi più difficili, come quella Israele-Libano-Hezbollah di quell'anno.
Il governo Meloni è invece politicamente forte, ma è in un contesto da saloon, dove vige la legge del più forte, senza nessun rispetto delle regole, e dove ognuno fa da sé ed è incerto se ordinare il tutti a casa o resistere in Libano sotto le bombe, in un precipitare della situazione che svela indecisione e impotenza. Difficile reggere in una missione nata in un'altra epoca che ora è rimasta senza obiettivo e rischiosa per i soldati italiani.
Non bastano le parole del ministro Antonio Tajani («i nostri non si toccano») per proteggerli, ma neppure un rigurgito nazionalista. Prima gli italiani non vuol dire che i primi ad andarsene saranno gli italiani, senza accordo nelle Nazioni Unite. Anche il cambio di regole di ingaggio sembra un percorso difficile. Su restare o andarsene, e su come interpretare queste due linee, il governo Meloni si gioca un pezzo di credibilità internazionale, a 20 giorni dal voto americano.
L'effetto immediato sul piano interno è la drammatizzazione del conflitto e la tregua dalle polemiche che hanno segnato gli ultimi giorni. Il balletto di dichiarazioni del ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti sulle tasse, il mancato blitz parlamentare sull'elezione del giudice della Corte costituzionale, rinviato di fronte al blocco delle opposizioni. E poi il nervosismo del ministro Crosetto, assente negli ultimi consigli dei ministri, in polemica con altre figure-chiave del governo.
È la linea blu del governo Meloni che sta per festeggiare due anni di vita, all'insegna di un restare in equilibrio che in politica è una virtù, quando non si trasforma in immobilismo, nel tirare a campare.
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