L’Italia dà il buon esempio con un accordo bipartisan sulla guerra a Gaza. In un mondo polarizzato occorre accordarsi sull’essenziale
L’accordo proposto da Elly Schlein e accettato da Giorgia Meloni sulla crisi a Gaza fa ben sperare: ci sono situazioni nelle quali essere bipartisan è d’obbligo e molto ragionevole. In un quadro internazionale estremamente polarizzato nel quale sembra impossibile intendersi sull’essenziale, l’Italia dà il buon esempio.
Ancor più significativo il fatto che venga citata la “tradizione italiana”: un mix di expertise mediativa e di senso del dialogo diplomatico molto utili di questi tempi. Prendere l’iniziativa è difficile ma non impossibile: tutti sanno che una soluzione dovrà essere trovata perché non è immaginabile né una guerra ad oltranza né la scomparsa dei palestinesi dalla Striscia (come dalla Cisgiordania).
Se l’Italia ritrova le sue capacità e lo spazio di manovra politico-diplomatico, tutti ne saranno beneficati. In Europa come nel mondo il “messaggio italiano” è sempre stato chiaro a tutti: siamo una nazione senza posizioni preconcette né pregiudizi ideologici.
Siamo schierati con l’occidente ma parliamo con tutti. Si tratta di un terreno sul quale la Farnesina può adoperarsi con profitto. C’è un altro dossier caldo che sarebbe bene affrontare e nel quale l’Italia può giocare il suo ruolo: il conflitto Armenia-Azerbaigian.
La mediazione
Alcuni mesi fa il ministro Antonio Taiani aveva già aperto ad un’azione italiana. Poi c’erano stati un tiepido intervento russo, le dichiarazioni di interasse americane, un timido tentativo della UE. Ma la guerra era ripresa violentemente con i risultati che conosciamo.
Ora la situazione si è fatta di nuovo incandescente, con morti e feriti sul fronte: serve rapidamente un gesto energico, rivolgendosi alle parti e offrendosi di mediare. I colloqui si sono interrotti: gli azeri – com’è noto – puntano al corridoio di Zangezour per aprirsi la continuità territoriale con il Nakhchivan.
L’Armenia dal canto suo teme l’invasione, come ha detto recentemente il premier Nikol Pachinain. Entrambi non potrebbero rifiutare un intervento di origine europea, che sarebbe l’unico possibile. Russia, Usa e Iran e Turchia sono tutti e quattro troppo di parte per potere andare bene ad entrambi i contendenti.
Anche la Francia si è schierata con gli armeni per una lunga affinità e la presenza di un’importante comunità in territorio francese. L’Italia ha il vantaggio di avere ottime relazioni con entrambi. In questo caso il fatto di essere buoni clienti del gas azero può giocare al favore di un nostro ruolo di mediazione che Jerevan non rifiuterebbe
A New York Taiani aveva già parlato con i suoi omologhi ministri degli Esteri ricavandone una positiva sensazione. Ora però lo scenario si è fatto molto più torbido. Gli armeni temono che la battuta d'arresto nel processo negoziale sia dovuta alle nuove proposte avanzate da Baku che non paiono costruttive ma espedienti per portare ad una rottura definitiva dei colloqui che legittimi il ritorno alla guerra. Anche osservatori indipendenti sostengono che Baku stia cercando «un'escalation metodica».
La diplomazia
Tutto dipende dal fatto che l’Azerbaigian si senta molto più forte militarmente dell’Armenia (sostenuto in questo da Ankara) e punti a chiudere l’annosa contesa con una definitiva sconfitta militare dell’avversario. Il costo della guerra sarebbe – secondo gli azeri – meno gravoso dei benefici che potrebbero trarne.
Per evitare l’escalation la chiave risiede nell’individuare assieme alle parti la convenienza (a medio e lungo termine) della trattativa e di una pace negoziata. Nel 2020 l'Azerbaigian aveva ammassato una potenza militare molto superiore a quella che il mondo esterno conosceva, mentre l’Armenia aveva contato fin troppo sulle sue, rimaste le stesse di vent’anni prima. Questo fatto – a dire degli esperti- spingerebbe il presidente Aljev a preferire la soluzione militare.
Un altro elemento – non sorprendente – che pesa sulla crisi è la mancanza totale di fiducia tra le parti intesa come capacità di ognuna di mantenere gli impegni presi. Entrambe parlano (a fasi alterne) di «incoerenza della pace»: una situazione che renderebbe dal punto di vista politico inutile negoziare.
Qui si inserisce il ruolo della mediazione: ridare fiducia a partire dalle garanzie che essa potrebbe offrire coinvolgendosi direttamente con un’interposizione (assieme ad altri). E’ già stato fatto dall’Italia in Libano nel 2006: un’operazione che tendiamo dimenticare ma che è stata di successo visto che è riuscita mantenere la pace, almeno fino ad ora.
Ciò a cui una mediazione tra Armenia e Azerbaigian dovrebbe mirare è la firma di un vero e proprio trattato di pace, con potenze garanti da entrambe i lati. Lo status quo non basta più, come si è visto dal 2020 ad oggi.
Si tratta di un processo lungo ma che occorre iniziare presto se si vuole evitare il gorgo dei revanscismi contrapposti che scaturirebbero certamente da una nuova guerra. L’Italia potrebbe avere le carte giuste per immaginarlo, dando il colpo d’avvio.
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