L’occidente è in guerra, militare, economica e valoriale. Ma non ne usciremo se continueremo solo a guardare il nemico invece di chiederci cosa dobbiamo cambiare per vincere
L’occidente è in guerra. Ci sono pochi dubbi a riguardo: per accorgersene è sufficiente leggere i nomi di villaggi scritti in alfabeto cirillico, arabo o ebraico associati alla tragica contabilità di munizioni, missili e morti. Se non bastasse, si possono enumerare le battaglie senza armi con cui giovani e vecchie potenze si contendono il dominio dell’economia globale.
O ricordare ancora i conflitti più sottocutanei, ma altrettanto polarizzanti, scatenati a casa nostra, nel cuore di Europa e Stati Uniti, contro l’ombra sinistra di populismi, suprematismi e radicalismi antidemocratici.
Immobile, con i piedi nel baratro
Sì, siamo in guerra e ne osserviamo con devozione la regola primaria: identificare il nemico. Ma dopo di ciò le certezze iniziano a vacillare, perché se oggi sappiamo bene “contro chi” stiamo combattendo, siamo piuttosto confusi nel riconoscere “per che cosa” stiamo lottando.
Oggi imbracciare le armi sembra diventato un riflesso incondizionato: unica risposta plausibile di fronte alle minacce alla nostra dimora.
Ma la guerra di pura difesa è destinata a una triste sconfitta. Per prevalere non basta salvare “ciò che si ha”. Si deve capire “ciò che si è”.
Per vincere servono idee: formidabili ordigni per trasformare il pensiero, ma che troppo spesso rimangono nell’arsenale delle nostre coscienze. Ci verrebbero in soccorso nei momenti di crisi, quando il contesto parrebbe spacciato, permettendoci di immaginare scenari diversi, impensabili fino a un attimo prima.
Eppure, coi piedi nel baratro, l’occidente rimane immobile. Incatenato alla necessità del presente, preferisce specchiarsi nei fasti della sua storia gloriosa. In mancanza di fantasia di “pensieri nuovi”, si aggrappa a “pensieri vuoti”. Un nulla di fronte al quale qualunque retorica antica appare più convincente.
Un moto rivoluzionario necessario
Ma il passato non basta. In guerra, ogni impulso conservatore diviene presto insopportabile. Si sente allora il bisogno di iniziare da capo, di ribaltare la prospettiva: un moto rivoluzionario di comprensione del mondo; così radicale da spingerci a trasformarlo. Uno sforzo immane che trascende le capacità individuali. Quando Galileo ha puntato il suo telescopio verso Giove, la nostra cognizione dell’universo è mutata per sempre di fronte a una nuova verità.
Ma nelle questioni umane, l’intuizione geniale di un singolo non è mai sufficiente. Un pensiero creativo, se espresso nel proprio salotto, non serve a nessuno. Perché una nuova proposta maturi in cambiamento reale, essa deve essere il frutto di uno sforzo collettivo. Nella consapevolezza che una società è tale se i singoli individui non agiscono soli, ma uniti in un progetto comune.
Un processo tortuoso e alle volte doloroso, che ci impone di confrontarci con i limiti delle nostre convinzioni, obbligandoci ad affrontare paure recondite e a porci domande indigeste.
Magari iniziando proprio da quelle che chiamano in causa la democrazia che difendiamo così strenuamente. Per farlo, bisognerebbe tuttavia ricordarsi che non si tratta di un dogma inviolabile: è da quando l’abbiamo concepita che ci interroghiamo sulla sua natura e sui suoi mutamenti nel tempo. Eppure, oggi sembriamo esserci dimenticati di questa sua peculiare spinta evolutiva. Proprio quando ce n’è più bisogno.
Tuttavia, nulla di ciò sarà possibile senza l’azione della politica. È suo il compito di orientare tale spirito trasformativo, dando forma al pensiero critico, organizzandolo e agevolandone la condivisione. Non può abdicarvi ora, limitandosi a seguire il moto di un infinito progresso a cui non si riesce più a dare un senso.
Senza politica, non ci sarà mai una rivoluzione delle idee, al massimo una sterile innovazione che non trasforma la società, ma, nel renderla più efficiente, la mantiene ancora più stabile. Proprio ciò di cui non abbiamo bisogno.
Ciò di cui, invece, abbiamo bisogno è cambiare il punto di vista. Abbiamo osservato così tanto il nemico da aver dimenticato le fattezze del nostro “esercito”. Dobbiamo re-imparare a guardare il nostro lato del campo, non per compiacerci degli stendardi della nostra armata, ma per domandarci se questi ci rappresentano ancora.
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