La determinazione con cui un intero continente si rifiuta di accettare che la guerra possa far parte del nostro futuro assomiglia alla fase di negazione di un lutto
Se domandassimo a un qualsiasi cittadino dell’Unione europea quale sia stata l’ultima volta in cui non si è sentito angosciato dal futuro, è probabile che tornerebbe con la mente al 2019. Prima della pandemia e delle guerre, quando persino il cambiamento climatico sembrava ancora gestibile e le intelligenze artificiali troppo limitate per farci paura. Ovviamente si tratterebbe di un falso ricordo: sarebbe sufficiente sfogliare un qualunque quotidiano dell’epoca per ricordarci all’istante che abbiamo trascorso il 2019 a preoccuparci del Pil asfittico e delle mosse imprevedibili di Trump.
Ma se è normale associare al passato l’idea di un tempo felice, lo è meno credere di poterlo ripristinare in toto. Eppure, leggendo in filigrana le promesse dei politici e le aspettative degli elettori europei alla vigilia delle consultazioni di giugno, sembra quasi che sia questo l’obiettivo che si sta rincorrendo.
Elaborazione di un lutto
In parte lo si deve al fatto che alcune condizioni del nostro tempo ci appaiono così estranee alla nostra idea di normalità da trovare inaccettabile che siano diventate parte integrante della nostra quotidianità. La guerra è tra queste: dopo 80 anni di pace, ci appare come una dimensione del tutto assurda e lontana da noi, impossibile da includere nella nostra visione del futuro. Una reazione che rischia di essere pericolosa al cospetto delle crisi globali attuali, destinate a trasformare per sempre poteri e economie. Eppure anche di fronte ai problemi con cui siamo abituati a convivere da anni — come l’inquinamento atmosferico o i flussi migratori — il nostro desiderio di rimozione cresce proporzionalmente al loro grado di criticità.
È un atteggiamento che assomiglia a quello descritto dalle fasi dell’elaborazione di un lutto, secondo la famosa sequenza elaborata dallo psicologo John Bowlby (negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione). Persino di fronte al rischio di escalation regionale in Medio Oriente o alla prospettiva che la Russia sfondi in Ucraina, ci ostiniamo a sperare che il cambiamento non ci riguardi direttamente. L’Europa preferisce limitarsi a invocare il rispetto del diritto internazionale o a premere per una de-escalation immediata, un cessate il fuoco o l’apertura di un qualsiasi tavolo di pace, non importa quali carte esso possa presentare.
Riavvolgere il nastro
Talvolta si riesce ad accedere alla fase successiva: quella della rabbia, esprimendola, ad esempio, nelle manifestazioni per la pace. Eppure siamo ancora lontani dallo stadio della contrattazione o anche solo da un dibattito che ci permetta di riflettere a mente lucida sul dinamismo dello scenario in cui siamo immersi. Per ora la sola opzione contemplata pare essere quella di “riavvolgere il nastro”, come se, invertendo la freccia del tempo, gli specchi rotti potessero tornare integri, i carri armati e i missili rientrassero in retromarcia nelle loro basi e persino il coronavirus riguardasse solo un pangolino cinese.
Dal punto di vista psicologico è comprensibile: questa ricerca di un equilibrio passato, un po’ edonista un po’ naïf, è quel meccanismo di difesa che ci permette di vivere la nostra vita senza essere schiacciati dal male. È assai meno giustificata quando la negazione riguarda la politica che ha il compito di guidare questi inevitabili cambiamenti.
Vengono in mente le parole di Luca Ricolfi quando scrive che abbiamo costruito una società votata a consumare benessere piuttosto che a creare sviluppo. Certo era un idillio poter godere della sicurezza senza doversi preoccupare di come crearla e mantenerla, ma ora abbiamo l’obbligo di togliere la testa da sotto la sabbia e riconoscere che le bombe sono tornate a far parte del nostro presente. Senza illuderci, peraltro, che sganciarne abbastanza per vincere un conflitto sia di per sé una strada per riconquistare la serenità di un tempo finito.
Sono queste le sfide che dobbiamo avere il coraggio di affrontare se vogliamo davvero costruire una società capace di riconoscere che il mondo è cambiato e che ritornare al passato è impossibile. Cominciare a farlo sarà senz’altro più efficace che aspettare l’invenzione della macchina del tempo…
© Riproduzione riservata