Solidificare un movimento e renderlo capace di prendersi responsabilità di governo e di opposizione. Non fare soltanto dichiarazioni di principio, ma sporcarsi le mani. E non stare di qua e di là, come i movimenti populisti fanno per raccogliere consensi da ogni parte. Questa ambiguità finisce con la fondazione di un partito. Deve finire
La trasformazione di un movimento anti-partito in un partito politico è un evento importante e raro. In passato, i movimenti extra-parlamentari che decidevano di prendere la via del parlamento e partecipavano alle elezioni finivano o per confondersi con i partiti storici di area oppure ottenevano esiti così scarsi da essere indotti a indietreggiare allo stato originario.
Anche il Movimento era partito extra-parlamentare e, anzi, con un forte disgusto per i parlamentari, contro i quali Beppe Grillo lanciò il Vaffa-day. A differenza dei vecchi movimenti extra-parlamentari aveva argomenti populisti: la gente che sta fuori dalla politica è onesta e pura, mentre chi fa politica è casta ed è, per definizione, corrotto facendo dello stato una mangiatoia che giustifica la rivolta della gente: tutti a casa!
Prima di Grillo simili argomenti li aveva sfoderati Umberto Bossi. E si sono sedimentati nella cultura politica del Movimento 5 stelle ricordando quelli snocciolati a guerra appena finita da Guglielmo Giannini. Come il fondatore dell’Uomo qualunque – anch’esso un movimento anti-partito – anche il fondatore dei Cinque stelle proponeva di sostituire il parlamento con un’assemblea di sorteggiati. Lotteria al posto delle elezioni.
Gianroberto Casaleggio ci credeva e si augurava una rivolta populista contro la democrazia rappresentativa. Morì troppo presto per vedere il suo Movimento andare al governo. Le roboanti minacce di istituire il mandato imperativo, di rovesciare il parlamento come una scatoletta di tonno e di fare del Senato un organo sorteggiato vennero gettate ai rovi. Noi diciamo, per fortuna!
Ma l’antiparlamentarismo ha lasciato un segno, con il referendum per dimezzare il numero dei seggi che il Pd di Nicola Zingaretti regalò al Movimento in cambio di un’alleanza di governo. Un piatto di lenticchie in cambio di un’aula parlamentare semivuota, un’immagine che induce a pensare che sia vuoto anche il ruolo dell’unica istituzione democratica che il governo rappresentativo consente.
Eppure i gentisti pentastellati ottennero consensi nel nome della vera democrazia! Nel nome della gente comune umiliavano l’unica istituzione con la quale la gente comune poteva incidere sul governo del paese. Quel movimento non c’è più.
Cambio di pelle
L’aver governato (per nulla male) la crisi epocale della pandemia ha cambiato la pelle del Movimento. Ha associato il suo nome a quello dell’ex presidente del Consiglio che ha con determinazione (e con una stampa per nulla amichevole) difeso le vite dei suoi concittadini imponendo una chiusura ermetica del paese e conquistando una politica europea che, per la prima volta nella storia della Ue, ideava un fondo comune che destinava le risorse in ragione non della virtuosità nella gestione dei bilanci nazionali, ma della necessità. La solidarietà europea scritta nei trattati diventava politica.
I Cinque stelle si sono conquistati un posto nella storia del paese che nessuno gli toglierà più. Giuseppe Conte ha capitalizzato da quella esperienza e ora cerca di far fare al Movimento quel che riuscì a far fare all’Unione europea. Lo prende di petto per farlo restare coerente alla sua dichiarata politica popolare, lasciandosi alle spalle il dominio del fondatore per fare di un’unione gentista un’istituzione organizzata, un partito. Solidificare un movimento e renderlo capace di prendersi responsabilità di governo e di opposizione.
Non fare soltanto dichiarazioni di principio, ma sporcarsi le mani. E non stare di qua e di là, come i movimenti populisti fanno per raccogliere consensi da ogni parte. Questa ambiguità finisce con la fondazione di un partito. Deve finire. La democrazia non ripudia il potere – di cui ha bisogno se non altro per fare muro contro i privilegi che la sfidano – ma si impegna a usarlo per cause giuste.
Vi è quindi da essere fiduciosi per gli esiti possibili di questo congresso. Inoltre, è importanete che ci siano diversi soggetti a far parte dell’alleanza alternativa alla destra. Prima di tutto perché un unico partito non avrebbe sufficiente pungolo a non diventare un catch-all party. È prevedibile che diversi partner si stimolino a vicenda e che ciascuno si impegni a portare al voto una fetta di potenziale elettorato. È vero che il pluralismo può degenerare in insopportabili battibecchi.
Tutto dipende dalla qualità delle leadership. Che devono riuscire a unire senza omologare, a discutere senza polemizzare. Importante è sapere chi è l’avversario da battere e quale è il traguardo da raggiungere. O di qua o di là.
Mentre andiamo in stampa apprendiamo che Grillo è “in guerra”, per usare il titolo del libro che scrisse con Casaleggio; ma ora la sua guerra è contro Conte. Guerra civile.
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