- Il 19 gennaio il ministro della giustizia Carlo Nordio ha dimostrato di capire poco e niente dei sistemi criminali messi a punto in 150 anni di storia italiana dalle organizzazioni mafiose di casa nostra.
- Ha scelto, invece, di lanciare messaggi precisi ai suoi vecchi colleghi magistrati, specie a coloro ancora impegnati nella lotta ai clan o appena andati in pensione dopo decenni di trincea.
- Quali competenze abbia maturato il ministro sul campo della lotta alle cosche da ex pm è noto: nessuna.
Il 19 gennaio il ministro della giustizia Carlo Nordio ha dimostrato di capire poco e niente dei sistemi criminali messi a punto in 150 anni di storia italiana dalle organizzazioni mafiose di casa nostra. Lo ha fatto alla Camera dei deputati e 72 ore dopo l’arresto del latitante dei latitanti Matteo Messina Denaro che ha beneficiato di coperture offerte dalla borghesia mafiosa, impasto di politica, massoneria, professioni, e da pezzi di stato infedele. Nelle ore successive la cattura del padrino di Castelvetrano era legittimo aspettarsi da un ministro un’analisi più profonda del fenomeno mafioso.
Ha scelto, invece, di lanciare messaggi precisi ai suoi vecchi colleghi magistrati, specie a coloro ancora impegnati nella lotta ai clan o appena andati in pensione dopo decenni di trincea. Attacchi che Nordio ha riservato per esempio all’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, ora parlamentare eletto con i Cinque Stelle: «Lei ha una visione pan-mafiosa dello stato», ha risposto per aggiungere: «Sentendo il vostro intervento sembra che la mafia sia annidata nello Stato in tutte le sue articolazioni...Se questo è vero significa che in questi ultimi 30 anni la lotta alla mafia è fallita. Se siamo di fronte a una mafia che si è infiltrata dappertutto, allora la domanda è questa: dov’era l’Antimafia se siamo arrivati a questo risultato?... Non credo affatto che l’Antimafia abbia lavorato male, al contrario credo che Italia non sia così infiltrata da articolazioni mafiose che si sono insediate nei meandri più intimi della nostra vita individuale». Il messaggio del ministro Nordio è chiaro: siamo assediati da mafiologi, gente che vede mammasantissima ovunque.
Quali competenze abbia maturato il ministro sul campo della lotta alle cosche da ex pm è noto: nessuna. Non ha mai firmato un’inchiesta sul radicamento delle mafia in Veneto, quando ricopriva il ruolo di procuratore aggiunto a Venezia, sede della distrettuale antimafia, si occupava di reati contro la pubblica amministrazione, corruzione e responsabilità medica. L’indagine più celebre che ha coordinato è stata quella sul sistema di mazzette del Mose, la diga mobile realizzata per arginare l’acqua alta nella città lagunare.
Peraltro la sua permanenza nella procura veneziana coincide con il periodo della negazione istituzionale della presenza mafiosa fuori dai confini delle regioni tradizionali. E infatti finché Nordio è stato in procura ( è andato in pensione nel 2017) le uniche inchieste su ‘ndrangheta, camorra e mafia siciliana in affari tra Venezia, Padova e Verona, sono state portate avanti dagli uffici giudiziari di Reggio Calabria, Catanzaro, Napoli e Palermo.
Le cosche erano impegnate in una massiccia operazione di investimento di quattrini sporchi nella regione di Nordio, ma reparti investigativi e uffici giudiziari veneti faticavano a interpretare i segnali provenienti dal territorio. L’unica operazione degna di nota risale agli anni 2011-2012, si trattava di un gruppo talmente violento e brutale che era impossibile da non coglierne la mafiosità. Per colpire gruppi dai modi più felpati sarà necessario attendere quasi dieci anni, con una procura antimafia di Venezia rinnovata e detective giunti in Veneto con molta più esperienza.
Ma nel frattempo il ministro, all’epoca procuratore aggiunto, era già andato in pensione. Per molto tempo politica, imprenditori, professionisti, magistratura e forza dell’ordine hanno sottovalutato il fenomeno, riducendolo a questione di bande violente e armate. Sfuggiva il carattere finanziario e insospettabile delle cosche, rappresentate su quei territori da emissari iscritti con le proprie imprese alla camera di commercio, che godono di appoggi nei municipi, negli studi dei notai e persino appoggi nelle questure e nei comandi dei carabinieri. La commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, nella relazione finale del 2018, ha criticato le procure venete: c’è «la necessità di migliorare il coordinamento e la collaborazione tra le varie autorità giudiziarie e di aumentare la specializzazione e la formazione specifica per i magistrati che si occupano di criminalità organizzata di stampo mafioso».
La stretta sulle intercettazioni annunciata da Nordio rischia di spuntare le armi contro i clan. Il ministro ha rassicurato i critici spiegando che le misure non riguarderanno reati di mafia e terrorismo. Ha aggiunto, inoltre, che non toccherà i reati satelliti ai primi due. Quindi sarà costretto a inserire in un ipotetico elenco di delitti satellite un po’ di tutto per evitare di complicare la vita a chi indaga sui sistemi mafiosi. Perché le indagini sulle mafie spesso nascono da verifiche su danneggiamenti, incendi, furti, abusi d’ufficio, gare d’appalto, corruzione.
Persino una rapina o una truffa potrebbe portare al cuore finanziario di un’organizzazione mafiosa. Perché lanciare un messaggio del genere nei giorni in cui si celebrava l’arresto dei boss dei boss della mafia? Quella di Nordio è solo propaganda o ignoranza del fenomeno? Quale sia la risposta, in entrambe i casi, la situazione è seria. Resta da capire come l’attacco all’antimafia in aula a Montecitorio si concili con la retorica di Giorgia Meloni, che va ripetendo di avere iniziato a fare politica sull’esempio dell’impegno di Paolo Borsellino, il giudice ucciso dal tritolo, sul quale ci sono le impronte di Messina Denaro.
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