Non sono molto più grande di chi si è beccato le botte a Firenze e Pisa. Ci avete chiamati in tanti modi, scansafatiche e buonianulla sono i più gettonati, ci avete detto che preferiamo il divertimento ai figli, che sappiamo solo lamentarci. Abbiate di noi l’idea che preferite, però un dialogo con noi dovete averlo
Sul quotidiano la Stampa, pochi giorni fa la scrittrice Viola Ardone ha così commentato i fatti del 23 febbraio scorso: «I ragazzi stesi a terra a Pisa e a Firenze sono lo specchio di un dialogo tra generazioni che si interrompe, di un fallimento politico da parte di chi agita i manganelli». Ardone si riferisce, naturalmente, alle cariche della polizia a Pisa e a Firenze, agli studenti, liceali e universitari, alcuni minorenni, manganellati mentre manifestavano, in modo pacifico, per le vie delle due città.
Ecco, le parole di Ardone mi hanno colpito.
Non sono molto più grande di chi si è beccato quelle botte – ché stiamo parlando di questo: botte – di chi si è ritrovato steso a terra con due poliziotti, in tenuta antisommossa, a torreggiare su di sé, di chi è stato caricato. E che il dialogo tra generazioni - forse dovrei dire tra chi ci governa e noialtri, però la sensazione che ho è che la frattura sia più lunga, ampia – si sia interrotto, pure in modo brusco, per me è evidente.
Lo è per me, lo è per la gran parte dei miei coetanei: ce lo diciamo spesso. Ci avete chiamati in tanti modi, scansafatiche e buonianulla sono i più gettonati, ci avete detto che non abbiamo il senso del lavoro, che non accettiamo il compromesso, che respingiamo l’idea stessa di crescere, che preferiamo il divertimento ai figli – lo Spritz, ecc –, che sappiamo solo lamentarci. Okay, abbiate di noi l’idea che preferite, però un dialogo con noi dovete averlo. Siamo il futuro, che vi garbi o meno questo è ciò che siamo.
Lo smarrimento
Ardone continua dicendo che «se chi ci governa ha così paura significa che le voci di quei ragazzi sono più forti di quanto possiamo immaginare»: sì, ecco, mi ha colpito anche questo.
Il Tempo che ci troviamo ad abitare è, in vero, assai confuso. Arrivano, da tante e diverse parti, segnali che potrebbero pure essere preoccupanti – per me lo sono. E sentirsi parte di qualcosa, un gruppo, un tessuto, sentirsi protetti dal diluvio in atto dall’ombrello d’ideali comuni, condivisi da altri è, in fondo, qualcosa di grande – e rassicurante. L’idea che la voce del singolo possa unirsi a quella di altri e che assieme possano diventare un coro, un coro «più potente di quanto possiamo immaginare», mi ha rinvigorito
Siamo scoraggiati, noi giovani, siamo scoraggiati e spaventati.
Ho perso il conto delle sere in cui uno dei miei coinquilini è tornato a casa dal lavoro con un’espressione mesta e in cui, guardandoci, preoccupati, ci siamo chiesti se avessimo sentito di quella notizia, di quell’altra, di ciò che era capitato o che era stato deciso. Il nostro Paese sta prendendo una direzione che non riconosciamo, una direzione a noi estranea e troviamo sia paradossale e ingiusto: il luogo verso cui si dirige l’Italia è quello in cui si ritroverà quando lo erediteremo noi, il Paese – ciò che viene fatto oggi ha un impatto gigantesco sul nostro futuro, sugli anni in cui la classe dirigente sarà la nostra.
Il percorso intrapreso oggi ci porterà in quanto collettività a un luogo ben specifico e sarà quel posto, proprio quello verso cui ci state portando ora, il terreno su cui noi, tra non molto, dovremo edificare la nostra esistenza e quella delle generazioni dopo di noi – dei nostri figli; se ne faremo, eh. Posto questo: è troppo chiedervi di ascoltarci, tentare un dialogo, sederci assieme per parlare?
Cosa abbiamo fatto?
«Una società cresce, diventa grande quando gli anziani piantano alberi alla cui ombra sanno che non potranno sedersi» recita un proverbio greco, ma altro che piantare alberi, qui piantate ceffoni. Qui manganellate dei ragazzini, degli universitari e dei liceali – dei minorenni disarmati e a volto scoperto.
Ma cosa ci state facendo? E cosa abbiamo fatto per meritarlo? Ve la prendete con il dito che indica la luna, e cercate di spezzarlo, quel dito, e la luna la ignorate. I liceali pisani e fiorentini, il 23 febbraio scorso, erano scesi in strada – ancora: a volto scoperto, disarmati – per manifestare pacificamente, indicare qualcosa per loro è importante. E avete cercato di farli tacere con la violenza.
Il 24 febbraio, camminando per le strade di Milano ho lambito il pezzo della città in cui stava sfilando il corteo in sostegno della Palestina, e del suo popolo massacrato, e ho dovuto valicare alcuni cordoni di carabinieri in tenuta antisommossa.
Mi sono tornate in mente le immagini del giorno prima, di Pisa e Firenze, appunto – ma solo al terzo tentativo sono riuscito a vederli fino alla fine, quei video –, e ho avuto paura. Ecco è normale aver paura di chi dovrebbe proteggerci? È normale vedere decine di agenti, e i loro manganelli, e sentirsi a disagio? Con me c’era un’altra persona, mia coetanea, che ha avuto la stessa sensazione.
Tornato a casa ho raccontato a CoinquilinoUno sia quel che avevo visto – il corteo, i carabinieri - sia pure l’agitazione provata, anche se per pochi istanti, ammetto, e lui, grave, ha annuito – «sì, è assurdo». È assurdo. Ed è un dispiacere grande: il senso che avrei dovuto avvertire avrebbe dovuto esser di protezione. C’è un cortocircuito, quindi? Qualcosa è andato storto?
Chissà, forse no.
Forse, in realtà, il disagio che ho provato non è tanto una conseguenza, un risultato cui si è arrivati in maniera scevra d’intenzioni, ma uno scopo assai ben raggiunto.
Se un liceale, un universitario, un ragazzino come tanti guarda, sui social, i video delle manganellate di Pisa e Firenze quando ci sarà di nuovo la possibilità di scendere in piazza, manifestare, provar a unire la propria voce a quella di suoi coetanei che con lui condividono idee, ideali, ecco, quando ci sarà di nuovo la possibilità di dire avrà paura per sé stesso, e forse non lo farà, desisterà.
Il dissenso soffocato
Manganellarne alcuni per non manganellarli tutti: è questo il vostro fine, lo scopo? Se la risposta è sì mi sembra evidente che abbiate fallito: ve lo dimostrano i cinquemila che quella sera stessa si sono presentati in piazza dei Cavalieri.
Però che lo scopo di quelle manganellate fosse proprio questo a me non lo toglie nessuno dalla testa; è incutere timore. Ma la piazza è un esercizio di Democrazia enorme, incredibile, bellissimo, è un luogo di transiti, scambi, ideali che fluiscono. La piazza chi ci governa non dovrebbe temerla, dovrebbe ascoltarla, specie se a popolarla sono dei giovani.
Si tratta di un fallimento, come scrive Ardone, allora? In fondo, a usare questa stessa parola è stato pure il presidente della Repubblica, Mattarella, in una nota: «Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento». Il fallimento, però, indica un tentativo che non va in porto. Indica un lavoro che non si è in grado, nonostante gli sforzi e le fatiche e le ricerche, di terminare.
Qui, sembra a me, non c’è stato alcun tentativo, alcuno sforzo: il dialogo non si è interrotto, la possibilità è stata negata fin dal principio, il dissenso è stato soffocato - per terra, manette ai polsi.
Dissenso.
Parrebbe quasi aver assunto un significato ostile, malevolo però non è così. Il dissenso, la contestazione - e questo lo sottolineo, a scanso di equivoci: sempre nonviolenta - è importante, indice di buona salute di una Democrazia. Il dissenso - nonviolento, ancora - è un diritto. Manganellare dei ragazzini che lo esercitano, questo diritto, un orrore.
Sembra, però, un automatismo.
Ghali a Sanremo esprime la propria opinione – da anni discute di temi, problemi molto ampi e importanti – lo stesso fanno Dargen D’Amico, Fiorella Mannoia, Diodato – ciascuno a modo suo - e s’invoca il daspo. I ragazzi vanno a manifestare in piazza, i manganelli spuntano nel giro di niente.
Sembra, ormai, un automatismo.
Sembra dicano: fatevi i fatti vostri e andrà tutto bene.
E dunque mi tornano in mente le parole di Viola Ardone su la Stampa, con cui ho cominciato giusto quassù: «Se chi ci governa ha così paura significa che le voci di quei ragazzi sono più forti di quanto possiamo immaginare»: sì, ragazzi, siamo più forti di quanto possiamo immaginare. Uniamoci, formiamo un coro, restiamo uniti – sempre cercando il dialogo.
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