- Quando una società si dichiara pronta per la guerra significa che ha già perso la pace da tempo, perché il conflitto si prepara da prima.
- il conflitto siriano non è estraneo alla crisi attuale: la Russia vi ha testato molte armi che ora mostra al mondo con ritrovato orgoglio.
- La vera posta in gioco è l’equilibrio strategico in Europa che Putin vuole ritrovare.
Più passa il tempo dalla seconda guerra mondiale e meno le classi dirigenti temono la guerra. Salvo eccezioni, i leader attuali non hanno toccato con mano il conflitto vero, quello che lascia dietro di sé solo terra bruciata. La guerra ha questo di particolare: avanza mascherata, iniziando nascostamente quando ancora non è scoppiata, quando solo in pochi la percepiscono.
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Lo scrittore ungherese Sandor Marai, ricordando il 1938, scriveva: «Non c’era ancora la guerra e già non c’era più la pace». È questa la situazione dell’Ucraina: non c’è già più la pace. È stata persa dentro le società e tra popoli frontalieri, una volta fratelli, a causa della tolleranza data all’ideologia del nemico, all’ostilità latente costruita contro il vicino dipinto come una minaccia.
Quando una società si dichiara pronta per la guerra significa che ha già perso la pace da tempo, perché il conflitto si prepara da prima. Lo si nota in queste settimane convulse: non c’è vera trattativa tra Usa e Russia, solo propaganda. Le notizie di intelligence che appaiono sui giornali, le foto aeree e i video di missili e sistemi d’arma: tutto questo serve ad allargare il fossato tra le parti, accusare ed intimidire.
Sia la guerra che la pace sono contagiose. Guerra chiama guerra: il conflitto siriano – lasciato esplodere e poi tollerato senza limiti – non è estraneo alla crisi attuale. La Russia vi ha testato molte armi che ora mostra al mondo con ritrovato orgoglio. La guerra non si fa senza conseguenze e offre sempre opportunità per nuovi conflitti. Non diversamente si sta comportando la Turchia (al suo livello) testando con successo su vari fronti i propri droni armati, divenuti un must internazionale.
Il conflitto russo-georgiano del 2008, pur nel quadro di una vittoriosa spallata russa, aveva rivelato seri problemi per l’ex Armata rossa, già ravvisati nelle guerre in Cecenia: obsolescenza dell’equipaggiamento militare e carenze tecnologiche. Dal 2010 Mosca aveva avviato un vasto programma di ammodernamento ma è stata la campagna di Siria ad offrire ai russi un terreno di sperimentazione a grandezza naturale.
Testare le armi e i sistemi tecnologici che le supportano, è stato fondamentale per ottenere l’efficacia ricercata. C’è anche un aspetto politico: in Siria la Russia ha potuto verificare l’incertezza e la divisione tra occidentali, traendo speciale profitto dai contrasti tra la Turchia e gli alleati Nato. Tutto questo ha costituito una vera tentazione per la leadership russa: scatenare la crisi ucraina per piegare gli europei e allontanarli dagli Usa. A questo serve il riconoscimento delle repubbliche separatiste. Malgrado le provocazioni per ora apparentemente si sta ottenendo l’effetto contrario.
Così come le guerre si saldano tra loro in una catena micidiale, allo stesso modo un serio negoziato potrebbe dare il buon esempio ed indicare la via per risolvere altre crisi maggiori, come quelle in Asia. Tuttavia non sembra che si voglia negoziare seriamente: non ci sono né tavoli formali né quei canali sotterranei che vengono attivati in questi casi.
C’è bisogno di intermediari tra le due potenze e forse questo è il ruolo che può giocare l’Italia, soprattutto il presidente del Consiglio Mario Draghi che possiede forte credibilità e autorevolezza riconosciute da tutti. Gli schieramenti si sono spinti troppo avanti e rischiano di perdere la faccia, cosa che in geopolitica equivale ad una quasi-sconfitta.
Le dichiarazioni ufficiali di queste settimane non mostrano quelle sfumature che potrebbero essere utilizzate dai mediatori interni. Ciò che non si dice è che sia in Russia, che in Ucraina e negli Usa vi sono posizioni diversificate sul da farsi: falchi e colombe. Secondo gli analisti in America la Casa Bianca sarebbe più soft del Pentagono; così in Russia tra Cremlino e forze armate ci sarebbe una divaricazione.
È noto che anche in Europa avvengono le medesime difformità. Ciò che evidentemente non ha funzionato sono gli accordi di Minsk ed è probabile che in questi anni non ci si sia sufficientemente dedicati a farli procedere nella direzione giusta. In effetti negli ultimi due decenni si sono lasciati troppi problemi aperti e senza soluzione, accontentandosi di congelarli per crederli risolti. Non è così: basta guardare al Nagorno Karabakh che è riesploso improvvisamente dopo 30 anni di stasi.
La comunità internazionale – soprattutto l’Europa – deve preoccuparsi della Bosnia come di tutte le altre frontiere delicate, delle crisi sospese e delle aree di instabilità. Sono numerose: Serbia-Kosovo; la crisi del Venezuela; le maras centroamericane e i narcos messicani; la guerriglia Eln in Colombia e altrove; le varie enclaves russe da Kaliningrad alla Transnistria; Punjab e Cachemire; le due Coree; Malesia-Tailandia oltre alle guerre mediorientali e africane o ai conflitti aperti di Siria, Yemen e Libia.
Come si vede si tratta di scenari molto diversi tra loro ma, in un tempo fluido come l’attuale, non esiste contesa sospesa che non possa riaprirsi improvvisamente. La crisi ucraina ha paradossalmente rinsaldato la Nato che Putin sperava di azzerare dopo che Macron l’aveva dichiarata «cerebralmente morta» e Trump una «spesa inutile». Con questa crisi l’industria militare occidentale sta ritrovando quel trampolino che le mancava dalla fine delle operazioni militari in Medio Oriente.
Pare che i ripetuti segnali di allerta Usa e la propaganda messa in campo da Mosca si rivolgano prioritariamente alle proprie opinioni pubbliche interne piuttosto che alla controparte. E’ ciò che la Cina ha capito decidendo di restare in equilibrio: da una parte non ha riconosciuto l’annessione della Crimea, dall’altra critica l’allarmismo americano.
La vera posta in gioco è l’equilibrio strategico in Europa che Putin vuole ritrovare: la fine del trattato Inf denunciato da Trump, ha lasciato un vuoto pericoloso. I missili a media gittata (da vedere se inclusi anche i cruise ecc.) sono un tema scottante tra Mosca e Washinton già da vari anni, e si intersecano con le crisi locali come Georgia, Siria, Mediterraneo o Ucraina appunto.
In Europa la Russia vuole ottenere il diritto di negoziare ogni posizionamento di lanciatori e testate, cosa che gli americani avevano lasciato sommessamente cadere sotto Clinton e Bush, ed escluso formalmente con Obama. La richiesta di “garanzie di sicurezza” riguarda l’assetto del bilanciamento delle forze nucleari più che i territori contesi come il Donbass in procinto di essere annesso.
Nella lotta interna tra falchi e colombe la controversia sulla terra può avere una funzione promozionale (è il caso del riconoscimento delle repubbliche indipendenti di Lugansk e Donetsk) così come per il grande pubblico, ma la vera questione cruciale è quella strategica. Mosca vuole contare e si inserisce come può tra le due superpotenze economiche e tecnologiche, usando ciò che controlla meglio: energia e armi.
La Russia ha anche un’altra grande risorsa: la sua immensa estensione territoriale tra Europa e Asia. Ma si tratta di un’arma a doppio taglio se si considera la decrescita demografica. Ecco perché accordare passaporti russi a circa 800.000 ucraini dell’est rientra nell’interesse nazionale russo: quello di accrescere la propria popolazione. Ciò spingerà Mosca all’annessione piuttosto che a sobbarcarsi la difesa di due repubbliche. Si tratta di un tema che gli europei occidentali conoscono bene: anch’essi sono preoccupati dalla crisi demografica e dalle questioni migratorie in generale.
Sono temi che assumono un aspetto ancor più drammatico se ci si sposta verso est: gli ex paesi satelliti dell’Urss sono in piena decrescita di popolazione e la crisi ucraina interviene su una frontiera fragile proprio a questo proposito. Spinte e controspinte su quel confine sono il risultato di due debolezze che si contrappongono invece che cooperare.
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