- La società dello spettacolo è finita. Viviamo nella società della performance, ossessionati a rincorrere obiettivi e risultati in ogni ambito della nostra vita: dalle relazioni di coppia a quelle genitoriali, dal nostro atteggiamento al lavoro o a scuola, a come ci rapportiamo con la salute e la malattia.
- Questa modalità ci serve per evitare di doverci confrontare con il rischio fallimento, della mortalità, della noia e del vuoto.
- Per questo motivo la voragine azzurra lasciata dal distacco del ghiacciaio della Marmolada non è solo un nuovo simbolo del cambiamento climatico, ma rappresenta il nostro umano e contemporaneo rapporto con il limite e la fragilità.
Azzurro è il colore del vuoto. Esordisce così, durante una seduta di psicoterapia, una mia paziente riferendosi al proprio lutto e al proprio vuoto personale per la recente perdita di un familiare: un dolore che ha visto rispecchiarsi nella voragine di ghiaccio azzurro lasciata dal drammatico distacco del seracco della Marmolada.
Al pari della siccità che da mesi sta colpendo il nostro territorio, la tragedia della Marmolada è diventata nuovo simbolo dell’evidente cambiamento climatico.
Tuttavia, lo sguardo diverso della mia paziente alle fotografie che da giorni riempiono quotidiani, telegiornali, e social, mi hanno rivelato come quella voragine rappresenti il nostro umano e contemporaneo rapporto con il limite e la fragilità.
Un baratro fisico, naturale, ma al contempo psichico e sociale. A partire dal Secondo Dopoguerra, abbiamo via via soffocato ogni discorso sulla fragilità, sul dolore e sul senso del limite.
Negli ultimi anni le campagne pubblicitarie, i meme motivazionali sui social, così come l’esplosione di libri sulla crescita personale, si sono sempre più centrati sulla comunicazione dell’assenza del limite, che “il solo limite che esiste è quello che scegli tu”, della filosofia del do more ad ogni costo o del “non si molla di un centimetro”.
Siamo tutti figli del monologo di Al Pacino alla squadra di football americano nel film Ogni maledetta Domenica di Oliver Stone. Abbiamo via via trasformato la fragilità in un cancro da rimuovere chirurgicamente e in questo modo stiamo educando i nostri figli al rifiuto della vulnerabilità.
In che modo? Trasformando in performance ogni nostro ambito della vita: le relazioni di coppia, quelle genitoriali o amicali, il nostro atteggiamento al lavoro o a scuola. Rincorriamo risultati ed obiettivi a velocità 2x come l’ascolto di un messaggio vocale di WhatsAapp, perché solo in questo modo ci sentiamo infallibili, invincibili, immortali.
Eppure, dalla pandemia avremmo dovuto imparare qualcosa. Un virus invisibile ci ha messo in ginocchio obbligandoci a fermarci e a rallentare. Chi studia le dinamiche psicologiche e relazionali, sa che questo atteggiamento sociale è figlio di ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi anni.
Abbiamo l’ansia di correre perché sentiamo che dobbiamo recuperare del tempo perduto in passato, e temiamo di non avere un futuro visto che l’inimmaginabile è già accaduto e potrebbe accadere di nuovo: una nuova pandemia, una guerra, disastri ambientali.
Abituati a coach o presunti tali che ci dicono di “stare nel momento presente” abbiamo smesso di guardare l’orizzonte con desiderio e progettualità, perché terrorizzati dal rischio che un imprevisto ci tolga tutto, di nuovo.
Per questo motivo, nella società della performance, le persone hanno smesso di guardare al futuro se non affannandosi nel riempire le proprie agende così da non rischiare di sprofondare in quel senso di vuoto, noia e mancanza.
Imparare ad arrendersi
Dovremmo imparare ad arrenderci. Arrenderci al fatto che, se continuiamo a considerare la vita una gara, partiamo sconfitti in partenza. Le idee di progresso, e di crescita incessanti, di potenziamento senza limite come cardine dell’esistenza ci portano a sbattere brutalmente contro il muro della realtà.
Sono nato in pianura padana e vivo lungo il Po. Non sono un alpinista, ma fin da bambino ho sempre ascoltato con profonda ammirazione storie e racconti di chiunque vivesse un’esperienza in montagna: poteva essere una passeggiata a bassa quota o la scalata ad una vetta in Nepal.
Ciò che accomuna ciascuna narrazione è la focalizzazione sull’accettazione dei fallimenti e delle rinunce, sulle cadute e sulle asperità che aiutano a riconoscere i nostri limiti e a elaborare quanto l’impotenza e l’imperfezione possano essere anche fruttuose e generative.
Jack London, in Racconti di solitudine, una raccolta dedicata alle sue esplorazioni nel Grande Nord in cui non racconta narcisisticamente delle sue conquiste, ma delle rinunce e fallimenti del viaggio, scrive che «la natura ha tanti espedienti per convincere l’uomo dei suoi limiti».
Oggi, nel suo essere controcorrente, sono sicuro che non inciterebbe all’imperativo di rialzarsi velocemente, quanto al permetterci di rallentare, fermarci e cadere, con grazia e furia.
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