- Che delusione questo capomafia che non è ricorso alla chirurgia plastica per cambiare faccia, nemmeno un piccolo intervento per correggere un leggero strabismo. Tale e quale a come immaginavamo che fosse, preciso agli identikit e ai fotofit elaborati nei gabinetti di polizia scientifica a mano a mano che invecchiava in latitanza.
- Il montone stile gigolò anni ‘70, il mito di don Vito Corleone de Il Padrino come un qualunque mafiosetto di borgata, il Viagra nella camera da letto.
- La malattia che gli ha fatto abbassare la guardia, il superboss che ha fatto saltare autostrade si è presentato in tutta la sua ordinarietà dopo trent’anni di latitanza.
Che delusione questo capomafia che non è ricorso alla chirurgia plastica per cambiare faccia, nemmeno un piccolo intervento per correggere un leggero strabismo. Tale e quale a come immaginavamo che fosse, preciso agli identikit e ai fotofit elaborati dai gabinetti di polizia scientifica decennio dopo decennio, a mano a mano che invecchiava in latitanza. Che avvilimento ritrovarselo così scontato, così ordinario, in posa con per un selfie con il chirurgo che l'ha operato, sempre lì a messaggiare con le infermiere e le pazienti incontrate in corsia.
Un quaquaraqua qualunque
Ma come, l'uomo che con le sue bombe ha fatto tremare l'Italia fra il 1992 e il 1993, un capo dei capi, uno che ha goduto di protezioni orizzontali e verticali, in uno dei suoi tanti covi aveva appeso alla parete il poster di Marlon Brando nel ruolo di don Vito Corleone? Come un quaquaraqua qualunque di borgata, lui elevato a mito e che aveva il mito di un Padrino finto, un boss creato dal cinema. Lui che veniva chiamato dai suoi “Testa dell'Acqua”, l'origine di tutto, che in buon ordine fa la fila in clinica aspettando pazientemente il suo turno.
C’era mistero prima intorno a Matteo Messina Denaro e c'è mistero nella sua banalità svelata oggi che ce lo ritroviamo in carne ed ossa dopo trent'anni.
E poi tutti i suoi vezzi da provinciale arricchito. L’orologio costoso e vistoso, gli abiti firmati, quel pesante montone stile gigolò anni ‘70 così ridicolo per Palermo, città dove - e ancora prima degli sconvolgimenti climatici e il surriscaldamento globale - si possono passare interi inverni con addosso soltanto una giacca o l'impermeabile per i più freddolosi.
Il manuale del “perfetto mafioso” contiene regole molto precise. I boss siciliani hanno sempre avuto poco da spartire con i camorristi, con la Gomorra napoletana, con il lusso ostentato. Anche in fuga, di solito mantengono una loro sobrietà che a volte sfiorano persino la miserabilità. Per esempio Bernardo Provenzano aveva trovato riparo in un casolare un po’ malmesso sopra Corleone e, nei famigerati pizzini, chiedeva ai suoi vivandieri che gli portassero “quella verdura nominata cicoria”. Pasti frugali, da vecchio contadino. Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, nella stanza da letto aveva un comò con un altarino per ricordare la moglie Vincenzina che non c'era più, forse suicida o forse ammazzata proprio da lui per lavare la vergogna di famiglia: Vincenzina aveva un fratello che si era pentito.
E invece il mito Matteo cosa teneva nella sua camera da letto? Profumi e sneakers griffate, preservativi e confezioni di Viagra. Superboss sulla carta ma, nell’intimità, bisognoso di un “aiutino” come tanti altri. Un latitante molto speciale e un uomo molto normale.
La mafia e il cancro
L'abbiamo inseguito per una vita, raccontato come il mostro che con i suoi amici aveva sciolto nell'acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, abbiamo visto il popolo di mafia in adorazione per lui e poi scopriamo che - come un qualsiasi signore di quelle parti - ai medici della clinica dove l'hanno preso regalava latte di olio della sua Castelvetrano, dove se ne produce di eccellente qualità. Consuetudini molto siciliane.
Non sappiamo se negli ultimi mesi Matteo abbia abbassato la guardia (tanti gli indizi che lo confermerebbero) per una malattia sempre più carogna, quindi alle prese con una delle più umane delle situazioni. In ogni caso si è esposto liberamente e nel modo più prevedibile possibile al mondo esterno, dopo avere maniacalmente curato la sua sicurezza per lunghissimo tempo.
Qualcuno in questi giorni, a proposito del boss intrappolato in clinica ha osservato che “la malattia è democratica” La scrittrice palermitana Giuseppina Torregrossa, che ha esercitato come medico prima di dedicarsi con successo alla narrativa, suggerisce un nuovo metodo investigativo: «Più che usare microspie si dovrebbe fare una mappatura delle malattie genetiche, fare l'anamnesi delle famiglie mafiose».
Moltissimi i boss, anche latitanti, arrivati alla resa dei conti con la giustizia con tumori più o meno gravi. La battuta fulminante di Torregrossa: «Spesso si dice che la mafia è un cancro in questo caso dobbiamo dire che la mafia ha il cancro».
Resta la sorpresa, lo sconcerto per l'apparizione nella realtà di un uomo comune che nel passato ha fatto saltare in aria autostrade. Ci spiazza, ci prende alla sprovvista il Matteo Messina Denaro che si fa riconoscere una mattina di gennaio nel 2023 alla periferia di Palermo. Come uno qualunque, confuso in mezzo agli altri.
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