Meloni al Cairo ha tutelato gli interessi dell’Eni e rinunciato a parlare di Giulio Regeni, cosa che sarebbe stata peraltro inutile. Non è un buon segno
Ma davvero l’Europa non può fare altro che rivolgere timorosi predicozzi ad Israele perché cessi di tormentare la popolazione di Gaza? Vasto, giovane e spesso istruito, un segmento di opinione mondiale attende di sapere se la Ue sia quel che pretende, il propulsore dei diritti umani nel mondo; o se invece ormai sia ridotta ad un circolo di potenze ex coloniali, pretenziose come vecchie attrici che si avviano, malamente imbellettate, verso un declino patetico.
Lo spettacolo offerto dalla super-delegazione europea sbarcata al Cairo per prestare soldi e soccorso ad un tiranno con l’acqua alla gola, il generalissimo al Sisi, rende difficile sperare. Date le condizioni quasi disperate in cui la cleptocrazia militare ha trascinato l’economia egiziana, sarebbe stato agevole ottenere dal dittatore la garanzia che i suoi soldati non avrebbero più intralciato il flusso di medicinali e di alimenti destinati ai palestinesi di Gaza.
Ovviamente al Sisi avrebbe recalcitrato, i generali egiziani sono ovunque in affari con gli israeliani, soprattutto negli idrocarburi, ne temono le reazioni e non vogliono venir meno agli accordi segreti per i quali fanno passare gli aiuti con il contagocce attraverso il posto di frontiera di Rafah. Ma ormai prossimo alla bancarotta alla fine al Sisi avrebbe dovuto piegarsi. Però quel che gli si poteva chiedere non è stato chiesto, stando al fatto che sul confine nulla è cambiato.
Evidentemente la von der Leyen e i quattro premier europei con lei, tra i quali la Meloni, hanno giudicato ineducato mettere in difficoltà un tiranno davvero cortese quando si parlava di migranti e di gas. Così si è fatto il solito teatro. Stando a quanto raccontato alla stampa, gli europei hanno condizionato il prestito al rispetto dei diritti umani e al Sisi ha chiesto di premere su Israele perché rinunci all’offensiva su Rafah: bisognava pur salvare le apparenze.
Rispetto al repertorio italiano di questi incontri, è mancato l’accenno al processo Regeni. I predecessori della Meloni erano soliti discutere con al Sisi innanzitutto quanto preme all’Eni, poi raccontavano ai giornalisti dei loro sforzi per convincere il dittatore («guardandolo negli occhi», ebbe a dire l’impudico Conte) a far luce sull’omicidio.
Meloni ha tutelato gli interessi dell’Eni, com’è nel suo mandato, e rinunciato a parlare di Regeni, essendo peraltro ovvia l’inutilità di chiedere proprio ad al Sisi la verità su un delitto che il dittatore probabilmente autorizzò, quando ormai i suoi torturatori avevano ridotto in fin di vita il ricercatore.
Idolatria della stabilità
La colpa italiana risiede altrove, ed è la colpa condivisa con gli altri europei: un’idolatria della “stabilità” che si spaccia per realismo, quando invece maschera debolezza e mediocrità. Con i soldi prestati da Ue e Fmi al Sisi potrà tirare avanti ancora per un po’, e con lui le consorterie di generali in affari, tanto ladri quanto incapaci, che stanno conducendo verso l’abisso 105 milioni di egiziani. Se poi dovessero finire appesi per il collo in piazza Tahir, l’Eni non dovrà rinunciare ai suoi (i nostri) affari.
Ma un’Europa non imbelle e dotata di pensiero strategico capirebbe che puntellare tiranni e assassini sulla sponda sud del Mediterraneo non è esattamente una politica estera. Allontana ma non previene implosioni da cui grandi masse di diseredati cercherebbero scampo tentando la traversata verso l’Europa.
E soprattutto ci introduce nel nuovo mondo in costruzione con il marchio di odiosi profittatori neo-coloniali. Tanto più sarebbe stato importante tendere una mano ai palestinesi di Gaza, un piccolo gesto che forse ci avrebbe messo nelle condizioni di premere su Hamas per la liberazione degli ostaggi, e in ogni caso avrebbe dimostrato che non siamo complici del governo israeliano. Ma quel gesto non c’è stato.
Così il messaggio a Netanyahu ribadito al Cairo è: i governi europei criticheranno i vostri ‘eccessi’ ma nella sostanza vi lasceranno fare. Fino a dove?: ecco quel che dovremmo finalmente chiederci. La guerra pare aperta a qualsiasi esito.
Da un paio di settimane a Gaza l’esercito israeliano ammazza un po’ meno, circostanza che i suoi avvocati faranno presente alla Corte internazionale di giustizia quando dovrà decidere se quei militari continuino a perpetrare gli ‘acts of genocide’ che il tribunale Onu ritiene “plausibile’ siano commessi.
Se nei primi cento giorni dell’offensiva israeliana ogni giorno morivano oltre 250 palestinesi, dall’inizio di marzo la media pare più bassa. Ma se stiamo all’autorità sanitaria di Hamas la somma del numero dei morti, oltre 32mila, sommati ai feriti supererebbe i centomila, un rapporto di un abitante colpito ogni 22, per questo secolo probabilmente un primato.
Il governo israeliano non tiene un conto delle vittime civili, considera miliziano di Hamas qualsiasi maschio adulto ucciso (“se si è beccato una pallottola vuol dire che se la meritava”, argomentano esponenti del Likud) e proclama di avere sterminati oltre dodicimila nemici. Probabilmente sono molto meno (seimila secondo Hamas) ma gonfiarne il numero aiuta il governo Netanyahu ad abbattere il rapporto tra guerriglieri eliminati e civili massacrati, altrimenti spaventoso.
Al numero dei civili uccisi da bomba, cannonata o pallottola vanno aggiunti i decessi, al momento non quantificabili, prodotti dal blocco parziale delle forniture mediche e alimentari. Sulla frontiera di Rafah gli egiziani rallentano il passaggio degli aiuti esercitando i controlli lunghi e pignoli richiesti dagli israeliani.
Questi ultimi bloccano sistematicamente il materiale che definiscono “dual-use”, cioè utilizzabile per scopi militari da Hamas, categoria che pare includere perfino le tende, in quanto dalla stoffa si potrebbero ricavare divise (che peraltro la milizia non usa). Tormentare la popolazione pare obbedire a vari obiettivi. Lo scopo immediato è lanciare ad Hamas un contro-ricatto: se voi avere 150 ostaggi, non ne abbiamo due milioni. Uno stato dovrebbe distinguersi da una banda armata ma l’elettorato israeliano non pare cogliere la differenza: secondo il 68 per cento sarebbe giusto bloccare i rifornimenti di medicine e di cibo destinati a Gaza.
Nel 2009 un’offensiva israeliana su Gaza punteggiata di episodi sanguinosi (li racconta esattamente il documentarista Stefano Savona nel suo La strada dei Samouni) indusse lo stato maggiore ad un’inchiesta interna. Risultò che le unità più violente erano quelle con cappellani militari fondamentalisti.
Quindici anni dopo si direbbe che un retropensiero fondamentalista traversi l’intera destra israeliana, per effetto di un’espansione che non sarebbe stata così virulenta se non avesse trovato incoraggiamenti e sponde in Europa e negli Stati Uniti. Sicchè adesso quella parte di opinione pubblica che è riuscita ad elaborare il pogrom di Hamas con coraggio e lucidità fatica a contrastare un mood generale invece orientato alle soluzioni magiche, o più esattamente “bibliche”.
Fuga dalla realtà
Chi volesse seguire nei suoi percorsi quella fuga collettiva dalla realtà non ha che da consultare la grande stampa israeliana. Dove è facile imbattersi in tesi al limite del grottesco, certo minoritarie eppure considerate legittime, accettate, in qualche modo intrecciate con il sentire generale.
Ecco Israel Ha Yom, per diffusione il secondo quotidiano israeliano, devoto a Netanyahu: «L’Idf (forze armate israeliane) non segue più la politica dl contenimento, parola in codice per significare un controllarsi che svuota la nostra capacità di deterrenza; dà la caccia ai nostri nemici nello spirito della dottrina militare di Re David: “Ho inseguito i nemici e li ho sopraffatti; non sono tornato indietro fin quando li ho distrutti. Li ho uccisi, giacciono ai miei piedi (Salmi 18:38)”».
Se il presidente della repubblica, il laburista Herzog, dubita che tra i palestinesi di Gaza ci siano innocenti, è difficile sorprendersi se non suscita scandalo il rabbi che dice ai suoi seguaci: vanno ammazzati anche i bambini, perché saranno terroristi, e le donne, perché metteranno al mondo terroristi. «Nelle Scritture c’è una dizione nitida, “non uno solo dovrà sopravvivere”. È noi o loro. Dunque la Torah è chiara quando afferma la necessità di uccidere donne e bambini». Non è la dottrina dello stato maggiore ma se queste idee possono essere espresse liberamente è probabile che a Gaza qualche soldato le metta anche in pratica.
Meno controverso è che la Torah assegni il West Bank e Gaza ad Israele perché dio lo vuole. Così risulta non solo a gran parte della destra israeliana ma anche ad un settore non piccolo del cristianesimo statunitense (protestante). Se ne è discusso a lungo nel recente raduno del NRB (National Religious Broadacsters), presenti importanti politici, pastori e giornalisti. Come leggiamo sul Jerusalem Post, un tempo giornale liberale, Netanyahu ha mandato un video-messaggio e un suo ministro ha tenuto un discorso assai apprezzato. Il Nrb ha ribadito che i Territori occupati vanno chiamati con i nomi biblici di Giudea e Samaria, trattandosi «della terra che Dio promise al popolo ebraico. La sovranità di Israele non è questione di politica ma di fede». Trump ha ricevuto molti applausi, e così colui che fu suo ambasciatore a Gerusalemme, David Friedman, quando ha espresso un suo piano di pace sintetizzabile nella formula: dal fiume al mare, è tutta Israele, per diritto storico e divino.
Finché gli occidentali non sloggeranno il dio degli eserciti dal pantheon della destra israeliana, anche una eventuale tregua non spegnerà la guerra né le impedirà di estendersi al Libano, per la felicità del dio avversario, il dio della jihad. Occorrerebbero gesti simbolici forti, spiazzanti. L’Europa non ne pare capace. I governi procederanno in automatico con la modalità tradizionale - assecondare il corso degli eventi con una prudente passività e poi soccorrere i sopravvissuti con ben reclamizzati sforzi umanitari.
Semmai è l’amministrazione Biden che potrebbe cambiare le cose. Ma finché non uscirà dal paradosso per il quale gli Usa forniscono ai palestinesi cibo e cerotti e agli israeliani bombe e pallottole, gli europei resteranno spettatori.
Al più si appassioneranno ai rispettivi teatrini, che in Italia oppongono da una parte il vasto club degli estimatori di Bibi, ogni mattina lodati dal sito Informazione corretta; dall’altra gli sciamannati che vorrebbero zittire anche giornalisti perbene come Maurizio Molinari (quali che siano le sue idee) al grido di “sionista!”. Se riuscite a dimenticare che lo spunto è una tragedia destinata a indirizzare la storia di questo secolo, lo spettacolo può risultare perfino interessante. Buona visione.
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