La premier ama presentarsi come forte, fortissima davanti agli elettori. Ma si rivela incredibilmente tentennante, quando si tratta di punire dare il benservito o correggere uno dei suoi fratelli di partito scivolato in uno degli sbagli che accompagnano la vita politica
Il congedo arrivò all'una di una caldissima notte d'inizio luglio. Il ministro fu accompagnato alla macchina con il motore acceso dal presidente del Consiglio, affiancato dal sottosegretario alla presidenza, più cerimonioso del solito, nel cortile dell'abitazione privata che era diventato il palazzo di governo.
Noi cronisti, eravamo rimasti in tre superstiti a quell'ora, in forza a un settimanale e due agenzie, vedemmo da dietro il cancello il presidente stampare un bacio su una guancia del ministro, e poi sull'altra, ci apparve lentissimo.
Il ministro salì, il cancello si aprì, la macchina sparì nella notte. Qualche ora dopo si apprese che, dopo la cena a palazzo Grazioli, Silvio Berlusconi, con Gianni Letta, aveva dimissionato il ministro degli Interni Claudio Scajola. Era l'estate del 2002, il potentissimo politico di Imperia, titolare del Viminale, era scivolato su una frase sprezzante, sciagurata contro il professor Marco Biagi, ucciso pochi mesi prima dalle Brigate rosse a Bologna, lasciato senza scorta nonostante le tante minacce e le ripetute segnalazioni.
Resistette al suo posto per quarantotto ore, poi fu costretto a lasciare, non per una vicenda giudiziaria o per un conflitto di interessi, ma per una semplice ragione di opportunità. Si era reso non degno di ricoprire la carica e la sua permanenza avrebbe messo in difficoltà l'intero governo.
Una questione politica
Restare o andarsene? Mollare o resistere? È il dilemma che riguarda ogni scivolone governativo, ogni ministro che inciampa nel dirupo, e anche il caso Sangiuliano. Non è mai una questione privata, perché un ministro è al suo posto in quanto nominato dal presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio, almeno fino a quando sarà in vigore l'attuale Costituzione (nella bozza di riforma approvata a giugno dal Senato si introduce per il premier il potere di revocare il mandato, come ha fatto Volodymyr Zelensky: chissà l'invidia).
Di questione politica si tratta, dunque, nonostante l'ostensione degli scontrini, i messaggi a mezzo Instagram, i sorrisi che diventano gelati al veleno, i pinocchi che salutano, le canzoni di Vasco Rossi, le chiavi d'oro, e da ultimo, ieri sera, il ministro della Cultura che parla alla tv di stato, intervistato dal direttore del Tg1, preceduto dai pop corn della ex aspirante consulente, sempre via Instagram. La fede, scomparsa e ricomparsa, non solo dal dito, la fede perduta, la fiducia, è sempre una questione pubblica, che coinvolge tutto il governo e la presidente del Consiglio.
Sindrome di accerchiamento
Giorgia Meloni è sembrata esserne consapevole ieri, quando di fronte all'esecutivo di Fratelli d'Italia, ha parlato di errori e di sbagli da evitare, di distrazioni e di sbavature, di passi falsi. Ha invocato congressi comunali e municipali per «scongiurare dirigenti inamovibili e rendite personali». Perché qui si sta facendo la storia.
Una frase già udita in bocca ad almeno tre o quattro predecessori di Meloni, di diverso colore politico, che in realtà a malapena fecero la cronaca, e non sempre una buona cronaca. Ma non di sbavature si tratta, né di distrazioni.
La premier che si raffigura come Giovanna D'Arco di fronte agli avversari, indomita, sembra attraversare una improvvisa incertezza quando si tratta di dare il benservito o correggere uno dei suoi fratelli di partito scivolato in uno degli sbagli che accompagnano la vita politica, che poi in effetti sempre i soliti: delirio di onnipotenza, uso privato di cariche pubbliche, ancor prima che di risorse, inebriamento da inamovibilità che porta a sbagliare.
Quella di Meloni è una leadership che ama presentarsi come forte, fortissima davanti agli elettori. E, invece, si rivela incredibilmente tentennante, quando si tratta di punire uno dei compagni che sbagliano, per usare una terminologia nota ad altre latitudini.
È la sindrome dell'accerchiamento, si è ripetuto in questi quasi due anni di governo, legata a un passato di partitino di opposizione. La necessità di difendere i tuoi, a qualsiasi costo, sfidando anche il nemico più insidioso, che non è la sinistra, Soros, il globalismo, i poteri forti, le toghe rosse di Magistratura democratica, i giornalisti di De Benedetti, ma è il ridicolo. Non è rilevabile dai sondaggi, che infatti sono stabili, se non in crescita. Ma scava, soprattutto quando le cose cominciano a ruotare in altra direzione, nel paese dei morti sul lavoro e delle faide mafiose per strada.
Conservare l’esistenza
Si dice che Meloni tema un rimpasto che significherebbe riaprire la lista dei ministri con una crisi di governo. L'esperienza del governo Berlusconi II (2001-2005) dimostra il contrario: cambiarono il ministro degli Esteri (Renato Ruggiero, dimissionario), degli Interni (Scajola, cacciato), dell'Economia (Giulio Tremonti, dopo una furibonda lite notturna con il vicepremier Gianfranco Fini), l'ossatura del governo, ma Berlusconi rifiutò sempre di andarsi a dimettere al Quirinale.
Il Cavaliere regnava su una coalizione litigiosa, per certi versi in modo più intenso dell'attuale, vista anche la personalità dei protagonisti (Fini, Bossi, Tremonti, Follini, non Tajani e Salvini), ma non la governava completamente, preferiva giocare quasi divertito con le ascese repentine e le altrettanto rapide cadute nella corte che lo circondava. Mentre Meloni gioca e si diverte di meno, controlla meno i partner di governo, ogni equilibrio messo in discussione viene visto come distruttivo.
Il potere di Meloni si è finora manifestato come forte, ma in realtà la vera conservazione dei conservatori è l'esistenza, la permanenza di se stessi ai posti di comando, a prescindere da quello che accade. Una compagine che era partita per dimostrare che esiste un'Italia del merito, diversa da quella familista e amichettista della sinistra, per dare visibilità a una nuova classe dirigente dotata di senso dello stato, si è rapidamente rovesciata nell'opposto, dimostrando quello che un osservatore non ostile come lo storico Giovanni Orsina ha definito già mesi fa un «atteggiamento famelico e sbrigativo» (La Stampa, 21 gennaio). Con il moltiplicarsi di casi sempre più imbarazzanti, prima di tutto per la premier.
Una regina tra nani
La questione non è privata, ma pubblica. Dopo due anni di governo Fratelli d'Italia che vorrebbe incarnare il nuovo partito-stato, quasi da destra storica, non è riuscita ad allargare, a influenzare, a esercitare una egemonia. Colpa dei buffi figuri che si aggirano nelle stanze del potere e del sottopotere.
Mentre la premier nel suo inner circle viene sempre raccontata come una statista, una spanna sopra gli altri, già entrata nella storia. Nella narrazione che arriva anche da chi le è vicino nel fantabosco di Giorgialand c'è una regina circondata da nani politici, che la regina è costretta a strapazzare, sopportare, correggere, forte della sua predestinazione al comando.
Sicuramente Meloni è di gran lunga superiore a chi le sta vicino. Sembra un merito. Ma per una leader o un leader è sempre un errore accontentarsi di avere attorno a sé personaggi meno autorevoli, poco competenti, incapaci di metterla in guardia dal passo falso.
Uno dei pochi, Raffaele Fitto, è volato in Europa dove potrà studiare da uomo di stato e da riserva della Repubblica anche per un futuribile centrodestra. A Roma resta la squadra di sempre. Dopo l’estate del complotto fantasma è arrivato il complotto contro se stessi. E non per distrazione.
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