«La Repubblica può qui riconoscere le sue radici», ha dichiarato Sergio Mattarella tre giorni fa ricordando l'ottantesimo anniversario dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, con 560 morti tra cui 130 bambini, una delle tappe di quel percorso di memoria (il 25 aprile 2023 a Cuneo, il 25 aprile 2024 a Civitella Val di Chiana) con cui il presidente della Repubblica sta ripercorrendo le stragi nazifasciste del 1943 e del 1944 (tra qualche settimana sarà l'anniversario di Marzabotto), mentre il governo Meloni non ha sentito il dovere di presenziare alla cerimonia di commemorazione, neppure con il più oscuro dei sottosegretari.

In questo spazio vasto che separa l'affermazione presidenziale sulle radici repubblicane e l'assenza governativa si può collocare il rapporto tra il Quirinale e Palazzo Chigi, tra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni.

I rapporti tiepidi

Il loro ultimo incontro ufficiale risale al 26 giugno, il consueto pranzo al Quirinale alla vigilia del vertice europeo in cui il governo decise di astenersi sul pacchetto di nomine, la premessa del successivo voto di Fratelli d'Italia nel Parlamento a Strasburgo contro la riconferma di Ursula von der Leyen.

Nel video diffuso dal Colle, come sempre senza sonoro, l'effetto è quello di un cinegiornale in bianco e nero, si devono decifrare i labiali, interpretare i gesti, si vede il presidente della Repubblica che si intrattiene con Antonio Tajani, Giancarlo Giorgetti, Raffaele Fitto, la premier arriva qualche minuto dopo. Sorrisi, cordialità. Il film muto della coabitazione tra Mattarella e Meloni che in questo ferragosto compie due anni.

A metà di agosto del 2022, infatti, Carlo Calenda fece saltare in poche ore l'alleanza con il Pd di Enrico Letta per le elezioni politiche del 25 settembre e si raggiunse la certezza quasi matematica che dalle urne sarebbe uscita vittoriosa la coalizione guidata da Giorgia Meloni, la prima esponente di un partito generato dal post-fascismo ad arrivare a Palazzo Chigi, l'unica leader ad aver votato contro la riconferma di Mattarella sette mesi prima. «Mi auguro sia l'ultimo presidente non scelto dagli italiani, ma frutto di veti e inciuci tra partiti. Basta perdere tempo: presidenzialismo subito», lo salutò sui social la leader di FdI, in crescita nei sondaggi. «FdI si batterà per il presidenzialismo», ribadì da candidata premier sul Corriere della Sera (14 agosto 2022) pur garantendo l'assenza di ogni ostilità verso Mattarella.

Contendenti silenziosi 

Dopo due anni di coesistenza ai vertici istituzionali Mattarella e Meloni non hanno dato vita a scontri espliciti. Il monarca repubblicano regna ma non interferisce con il governo, la formula della moral suasion è caduta in disuso, il partito della Corona non agisce sulle dinamiche politiche e se e quando lo fa non pubblicizza il suo operato, né enfatizza le distanze con Palazzo Chigi.

Sul piano formale, nessun atto del governo è stato bloccato dal Quirinale, l'ultima firma è arrivata sul ddl Nordio, sia pure in extremis. In nove anni Mattarella ha rinviato una sola legge alle Camere (sulle mine antiuomo nel 2017), preferisce fare ricorso a quella che i costituzionalisti chiamano «promulgazione dissenziente», la firma accompagnata da rilievi.

Sul piano politico, qualunque focolaio di contrasto pubblico è prontamente spento. L'ultimo caso è stato il discorso del presidente alla Settimana sociale dei cattolici a Trieste il 3 luglio sulle condizioni della democrazia, il ruolo del Parlamento, i limiti delle maggioranze.

«È un discorso molto alto, lo condivido», si affrettò a dire Meloni, fermando sul nascere le polemiche di Salvini. «Ho espresso - intenzionalmente - considerazioni concrete ma sul piano generale, di principi, senza alcun trasferimento ai temi del confronto politico attuale. E non è il caso di farlo qui», ha confermato Mattarella incontrando la stampa parlamentare il 24 luglio.

Aggiungendo però, subito dopo, parole affilate sulla mancata elezione del quindicesimo giudice della Corte costituzionale: «Si tratta di un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento. Non so come queste mie parole saranno definite: monito, esortazione, suggerimento, invito. Ecco, invito, con garbo ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice».

Solo un bagliore nel buio di cosa potrebbe accadere se le due costellazioni, all'improvviso, andassero in collisione.

Finora non è accaduto. Tra il presidente e la presidente c'è l'interesse comune a non stressare ancora di più un corpo dello Stato che viene da anni di crisi, che è chiamato in precarie condizioni di salute a correre le maratone che impone lo scenario internazionale. Il tema meno banale e più di sistema.

Ma quelle tra Mattarella e Meloni non sono le morotee convergenze parallele di cui scrisse Eugenio Scalfari sessant'anni fa a proposito dei governi di centrosinistra tra democristiani e socialisti, che erano un assurdo geometrico e un assioma politico. Semmai sono divergenze parallele che segnano la coabitazione istituzionale tra figure lontanissime per età, formazione, cultura politica.

Mattarella e Meloni procedono divergenti in parallelo, in modo asimmetrico, ma senza scontrarsi (almeno per ora). I contendenti si fronteggiano senza guerreggiare, seguendo i rispettivi caratteri: Meloni si afferma attraverso il combattimento, Mattarella si afferma evitandolo.

La fisarmonica dei poteri presidenziali, secondo la metafora di Giuliano Amato, che si allarga quando il sistema politico frana, in questi due anni è rimasta rigorosamente chiusa, ma Mattarella non si è limitato a un ruolo notarile, come si vede in interventi sempre meno di circostanza e sempre più severi (l'ultimo ieri sui sei anni della strage del ponte Morandi).

I distinguo sulla storia repubblicana

Le dichiarazioni sulla storia repubblicana, sulle stragi di Brescia, di Bologna, del treno Italicus, come quelle sulle stragi nazifasciste del 1943-44, sono per Mattarella l'occasione per costruire un lessico civile comune, uno spirito repubblicano legato alla Costituzione del 1948.

I discorsi internazionali non mancano mai di sottolineare l'indissolubilità del destino dell'Italia e dell'Europa. «Se in passato la democrazia si è inverata negli Stati, oggi, nel continente che degli Stati è stato la culla, si avverte l’esigenza di costruire una solida sovranità europea», ha detto a Trieste.

Sono i due terreni su cui Giorgia Meloni ha cercato in questi due anni di fissare la sua impronta. Assumere la leadership della nuova Europa disegnata dai nazionalisti, spostando a destra l'asse dell'Unione. E riscrivere la Costituzione, con l'accentramento sui poteri del premier, a discapito del Parlamento (già menomato) e del presidente della Repubblica.

Il primo obiettivo si è infranto sulla tenuta in Europa dell'asse di sempre, i popolari e i socialisti con i liberali, Francia e Germania, un centro-sinistra allargato ai verdi che ha spinto Meloni all'auto-isolamento. Il secondo obiettivo è una nebulosa, avanza l'idea di ritardare il voto della Camera sul premierato verso la parte finale della legislatura.

La tensione tra Meloni e il governo dell'Unione è destinata a intensificarsi, al di là della nomina dell'italiano nella commissione Ue: come si schiererà il governo italiano se nuovi sconvolgimenti internazionali, i conflitti in corso e altri potenzialmente in arrivo, le elezioni americane, spingeranno l'Europa verso una maggiore integrazione politica?

Sul fronte interno, nelle riservate conversazioni estive non si parla d'altro, la premier è tentata dallo showdown, da nuove elezioni anticipate, per incassare il consenso che le resta, regolare i conti con i litigiosi Lega e Forza Italia, impedire la riorganizzazione delle opposizioni. L'agitazione in zona Forza Italia, ma anche nel centro del futuribile centrosinistra, è il segno che qualcosa si muove.

Ma a differenza di Spagna e Inghilterra, la premier non dispone dell'arma elettorale, il potere di scioglimento delle Camere spetta a Mattarella. In quasi dieci anni al Quirinale (è stato eletto per la prima volta il 31 gennaio 2015) il presidente ha dimostrato di non essere disposto a guidare i processi politici dal Colle, ma non per questo è insensibile e si è fatto trovare impreparato di fronte ai cambiamenti di fase: le dimissioni di Matteo Renzi dopo la sconfitta al referendum del 2016, la nascita del governo gialloverde e di quello giallorosso, la chiamata di Mario Draghi, lo scioglimento delle Camere estivo nel 2022.

Quali di queste svolte sono state imposte dalle circostanze e quali, invece, sono state meditate in anticipo? Resterà il mistero delle presidenze Mattarella, l'enigma più fitto.

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