- Chi vive nel paese reale ancora non ha capito il rischio delle manovre di palazzo di queste ore: che le elezioni vengano presentate dai partiti come un passaggio quasi inutile, irrilevante. Con la logica conseguenza di un aumento dell’astensione. Mentre in realtà la posta in gioco non è mai stata così alta.
- Senza la grande coalizione la sconfitta del centrosinistra è certa.
- E allora, sembrano pensare i vertici dei partiti di centrosinistra, meglio dedicare il poco tempo a disposizione a come spartire i pochi seggi disponibili.
Chi vive nel paese reale ancora non ha capito il rischio delle manovre di palazzo di queste ore: che le elezioni vengano presentate dai partiti come un passaggio irrilevante. Con la logica conseguenza di un aumento dell’astensione. Mentre in realtà la posta in gioco non è mai stata così alta.
Sul fronte del centrosinistra la spinta a rendere inutili le elezioni deriva dalla rassegnazione alla sconfitta: dopo averlo promesso per tutta la legislatura, la legge elettorale non è cambiata.
La combinazione tra collegi uninominali che funzionano con logica maggioritaria e proporzionale costringe a formare coalizioni. Mentre le destre sembra si stiano compattando senza problemi (l’unica incertezza è sul nome del premier, tale è la convinzione della vittoria) sull’altro fronte c’è un complesso dibattito sulle incompatibilità.
Se il Pd ha Azione di Carlo Calenda, allora non può avere i Cinque stelle, che a Calenda non piacciono. Se prende Matteo Renzi, c’è un problema con Giuseppe Conte e il Movimento, che da Renzi sono stati sfiduciati a febbraio 2021. E se il Pd mette in lista Luigi Di Maio, in una qualche forma, chi li sente gli ex amici pentastellati? E così via.
Senza la grande coalizione – eterogenea, pasticciata e composita come tutte quelle del passato (che però hanno portato alla vittoria, a differenza delle “vocazioni maggioritarie” – la sconfitta è certa. E allora, sembrano pensare i vertici dei partiti di centrosinistra, meglio dedicare il poco tempo a disposizione a come spartire i pochi seggi disponibili. Che potrebbero essere pochissimi, dunque la competizione è violenta. Ma non è una competizione per i voti, bensì una misura di rapporti di forza interni: come si fa a negare un seggio sicuro all’eterno Pier Ferdinando Casini, o a Beatrice Lorenzin? E Nicola Zingaretti, che lascia addirittura la regione Lazio, dovrà pur averne uno. Per non parlare di tutti quelli che, con la promessa di qualche posto, stanno tessendo le alleanze, a cominciare da Bruno Tabacci.
Anche i più convinti predicatori di rinnovamento, alla fine, lottano per seggi sicuri: da Elly Schlein a Carlo Calenda, uno dei sottotesti nella costruzione delle geometrie della coalizione è stabilire chi avrà certezza dell’elezione e chi no. Ma a forza di spartire seggi sicuri, il Pd e gli alleati potrebbero scoprire che di sicuro non c’è più nulla. Se non ci credono neppure loro che andare a votare contro le destre serva a qualcosa, perché dovrebbero crederci gli elettori?
A destra, tra Lega e Forza Italia, la situazione non è molto diversa. Soltanto Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia porterà in parlamento facce nuove, gli altri si limiteranno a cercare di confermare gli uscenti, che già è un’impresa ardua visto il taglio di un terzo dei parlamentari per la riforma voluta dai Cinque stelle (e appoggiata da Pd e Lega, va ricordato).
Lo scontro delle idee
Quindi non si può andare a votare per portare in parlamento persone diverse. Ci troveremo, più o meno, con un sottoinsieme degli attuali, con una prevalenza dei politici di professione. Neppure saranno i programmi ad attirare: in due mesi è difficile che i partiti possano produrre ciò che non sono stati capaci di elaborare in cinque anni di legislatura, con il supporto di uffici studi e tecnici parlamentari (Domai sta cercando di sopperire a questo vuoto di idee con una serie di proposte discusse su queste pagine).
Ma questa elezione non è necessariamente già decisa e senza alternativa. Spetta al centrosinistra riempirla di senso, visto che la destra si limita ad amministrare il vantaggio. E l’unico modo per mobilitare i propri elettori (c’è troppo poco tempo per sedurre quelli altrui) è con chiare scelte di campo, posizionamenti netti sui valori e sugli impegni.
In una sintesi estrema: mai più compromessi come quelli di questa legislatura. Mai più finanziamenti alla guardia costiera libica per tenere i migranti nei lager (il voto contrario di ieri è il culmine dell’ipocrisia, dopo gli anni del Viminale di Marco Minniti e le politiche della ministra Lamorgese in continuità con quelle leghiste); mai più cedimenti sul fronte fiscale, come quelli sulla delega che rinvia la riforma del catasto e stabilizza flat tax che penalizzano i dipendenti e incentivano il precariato estremo; mai più compromessi sull’ambiente, che si tratti di Ilva, di blocco delle auto a benzina, di gas o trivelle; mai più cedimenti o compromessi sui diritti, dall’identità di genere alla cittadinanza.
Mai più, in sintesi, “agenda Draghi”: il centrosinistra non può avere come messaggio politico quello di poter governare con tutti perché privo di una identità propria. Se proprio bisogna prepararsi alla sconfitta, che almeno sia in una battaglia aperta di ideali invece che una battuta di caccia al collegio sicuro.
© Riproduzione riservata